Kelvin Sampson, il suo allenatore all’Università di Houston, un giorno disse che Armoni Brooks era il classico ragazzo che tutti avrebbero voluto che sposasse la propria figlia. Il Coach voleva elogiarle l’integrità morale, la serietà: “Sono stato educato bene, provengo da una buonissima famiglia e ci sono tratti che mi hanno trasmesso, tipo l’attenzione per gli altri o l’importanza della famiglia stessa che l’hanno portato a dire questa cosa… non saprei”, ride Armoni ricordando quell’episodio. Sampson è uno dei grandi nomi del college basketball: ha allenato Oklahoma, ha allenato Indiana e poi costruito un altro programma vincente a Houston. “Devo molto a Coach Kelvin Sampson – dice Brooks -. I suoi allenamenti erano intensi, ma anche fuori del campo ha sempre tentato di costruire delle relazioni, veniva a parlarti per essere certo che stesse andando tutto bene e se avevi capito ciò che stavamo facendo. Così quando arrivava il momento dell’allenamento ti sentivi più parte di una famiglia che di una scuola. L’University of Houston è questo: sono stati tre anni fantastici”.
Armoni Brooks è un texano, uno stato che con l’Olimpia ha sempre avuto un rapporto speciale, basti ricordare Curtis Jerrells e Keith Langford. Soprattutto Langford perché di Brooks è stato in queste ultimi anni una specie di mentore. Nessuno è stato più contento di lui di vedere il proprio delfino indossare la sua stessa maglia, nello stesso posto in cui è stato felice. “Gli ho mandato un messaggio in estate per dirgli che avevo firmato qui. Era superfelice. Mi ha detto che mi sarei trovato bene, mi ha dato dei consigli, sull’ambientamento. Dice che per me è una grande opportunità”. La storia della loro amicizia, un rapporto da fratello maggiore a minore, risale a quando Keith ha smesso di giocare ed è tornato a tempo pieno a Austin. “Mi ha visto allenarmi in una palestra ed è venuto da me con l’idea di giocare uno contro uno. Poi c’era anche il suo trainer. E da quel momento siamo sempre rimasti in contatto. La scorsa estate ci siamo allenati qualche volta insieme. Mi ha dato dei consigli, delle dritte su come trarre vantaggio da determinate situazioni per me stesso e per la squadra. Adesso parliamo almeno una volta alla settimana, per me rappresenta un modello di riferimento. È una persona cui mi posso rivolgere quando ho bisogno di un consiglio, perché so che mi aiuterà”, racconta Brooks.
La passione per il basket è nata con lui. Il padre era un appassionato, giocava sempre in palestra quando aveva un attimo libero. Armoni non appena è riuscito a camminare insisteva per seguirlo ovunque. “Gli stavo incollato, tutto quello che volevo fare era andare in palestra, giocare a basket, tirare, poi tentare di schiacciare. Il basket è stato parte della mia vita fin da quando avevo un anno”, sorride. Alla McNeill High School di Austin era considerato un buon prospetto, ma non trascendentale, ma ottenne lo stesso un posto nel roster della University of Houston. Fu una specie di shock culturale. “Al liceo, ero generalmente più atletico degli altri ragazzi e non avevo bisogno di tirare da fuori, ma quando sono arrivato al college ho trovato giocatori più alti, grossi, più veloci”, racconta. Fu allora che decise che il tiro sarebbe diventato la sua arma migliore. “Non è un talento naturale, è qualcosa su cui ho lavorato, per ore ed ore. L’ho davvero sviluppato nell’arco dei miei tre anni al college fino a farlo diventare la mia arma migliore. Ma voglio continuare a utilizzarlo, a lavorarci sopra, espandere il repertorio”.