Abbiamo intervistato nella nostra live chat disponibile su Youtube e sugli aggregatori di podcast Attilio Caja, attuale coach della Fortitudo Bologna, che ci ha raccontato tutti gli aneddoti e le sfaccettature della sua carriera da allenatori con tantissime curiosità.
Partiamo con un aneddoto simpatico. Il tuo lavoro ti ha fatto vivere infiniti episodi, alcuni magari inattesi. Con l’Olimpia Milano ci hanno riferito di una trasferta a Tel Aviv e il giorno dopo avete fatto una gita a Gerusalemme. Ci racconti di TJ Watson sul cammello?
Sarebbe stato da girare un video e da mandare a “Oggi le comiche”! prima di tutto era curioso di salire sul cammello, poi quando c’è salito ed è arrivato così in alto si è impaurito tantissimo. Alla fine del giro il cammello si ferma e TJ urla “There you go, big dog!”, come a dire “Grazie, bel lavoro nell’avermi riportato a terra, cagnolone”…
Sono questi poi gli aneddoti che trasformano i giocatori, che siamo abituati a vedere dall’esterno in maniera piatta, in persone, uomini con le stesse peculiarità di tutti noi…
I ricordi di quell’annata, almeno a livello personale, sono bellissimi. Gallinari, Melvin Booker, Vukcevic in campo; Coldebella e coach Mario Fioretti a collaborare in panchina e in società. Peccato aver incontrato in semifinale l’invincibile Siena dei tempi!
Annata davvero particolare quella, per l’Olimpia. Si è passati da Zare Markovski, platoon system e 20’ a tutti in rotazione ad Attilio Caja, con gerarchie ben definite e rotazioni asciugate. Dai risultati negativi di inizio stagione a un finale a dir poco insperato considerato gli stenti in apertura: qual è stata la tua logica per risolvere i problemi palesatisi?
Ho trovato una squadra dalla grande impronta americana e ho cercato coloro i quali avessero maggiore solidità mentale. C’erano diversi giocatori di poca consistenza, Gaines e Touré solo per citarne un paio. Per mettere al centro del progetto Danilo e Vukcevic sono andato a riattivare quello che sostanzialmente aveva deciso di essere un ex giocatore come Melvin Booker. Avevo avuto il papà di Devin 7 anni prima a Pesaro: a novembre l’ho chiamato e gli ho chiesto di riprendere a giocare e darmi un’ultima mano a Milano. Altro giocatore importantissimo per quella squadra è stato il lituano Katelynas: lui, insieme ad altri lunghi complementari e consistenti dalla panchina come Shaw e Sesay, fornivano il giusto supporto all’asse perimetrale con un Gallinari ora sì libero di mostrare tutte le potenzialità.
Ora siamo abituati, ma quell’annata di Gallinari ci ha regalato forse il primo atleta che, a quell’altezza e a quell’età, utilizzava regolarmente lo step-back come soluzione dal palleggio. Quanto hai dovuto mediare tra l’hype e lo spazio da dare a un giovane talento come Danilo e un roster di veterani più affermati che reclamavano giustamente i loro possessi e la loro voce in capitolo?
Danilo è sempre stato un grande talento abbinato a un grande giocatore di squadra. non era mai sopra le righe, riusciva a segnarne 20 rimanendo nei suoi spazi. Era molto rispettato dagli altri e lui, percependo il rispetto, non faceva nulla per approfittarne. Sarebbe stato l’anno del Draft, alle partite c’erano tutti gli scout NBA e a livello di EuroLeague la cosa lo galvanizzava: ricordo il matchup con Jerebko, dove lo svedese è stato spazzato; ricordo la trasferta a Le Mans contro Batum, e Danilo spazza via Batum. Danilo ha poi fatto una carriera di alto livello, ma è stato davvero sfortunato con gli infortuni, che gli hanno impedito di raggiungerne uno ancora più elevato. In Italia, invece, questo ci si ritorceva contro: tutte le partite in Serie A facevano il tutto esaurito e la presenza degli scout motivava tantissimo gli americani avversari. Danilo ha sempre avuto la capacità di acquisire qualcosa partita dopo partita: Jerebko era assai efficace a rimbalzo offensivo e, preparando nello specifico quella partita, ha aggiunto al suo bagaglio da lì a fine carriera il tagliafuori, diventando oltre al talento anche notevoli doti di rimbalzista.
Per chiudere il cassetto dei ricordi Olimpia: possiamo definire quella di Madrid come la vittoria più importante della tua carriera?
Beh, sì! Claudio Limardi, che all’epoca si occupava delle cronache e dei commenti pre e post-partita, mi ha sempre ricordato come quella fosse la prima e, sino a un paio di stagioni fa, l’unica vittoria dell’Olimpia a Madrid. Ma non è stata l’unica grande affermazione europea di quell’anno: col Real stesso abbiamo vinto anche al Forum, abbiamo vinto a Salonicco contro un Aris di alto livello con 40’ di zona…