Basket Sofa – Doc Rivers lancia l’allarme: troppo stress per i coach NBA

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Rivers

Per una settimana Basket Sofa smette i panni del semplice osservatore e – provando con buona dose di empatia – indossa quelli dello psicanalista, che il divanetto lo ha vicino alla scrivania per i pazienti. L’indagine di questa settimana, molto di natura psicologica, per non dire psico-somatica, va a scandagliare il rapporto tra il benefit fisico connesso all’attività sportiva e quel margine di stress connaturato all’obbligo di risultato. Da qui una domanda che spesso – forse troppo – passa in sordina: se è vero – ed è anche giusto – che un giocatore, se non è al 100% della condizione viene fermato dallo staff medico, perchè altrettanto non può essere detto di un allenatore? Doc Rivers ha lanciato in settimana col suo solito piglio sardonico questa affermazione, che deve indurre a riflettere e che ha portato all’analisi.

DOC RIVERS… A “DIFESA” DEI COLLEGHI

Prendete Doc Rivers e avete l’epitome di quel che si dice un grande allenatore, di quelli che fanno la differenza. Eppure qualche anno fa stava per lasciare i palcoscenici. Stava troppo male per problemi di salute, stanchezza fisica e mentale. Il suo marchio di fabbrica è la difesa di squadra, ma quella presenza sul campo, stavano lasciando il posto a qualche ombra di troppo, forse sarebbe stato meglio smettere, anche se i fatti gli hanno dato torto e si ritrova ora sulla panchina di una grande squadra, ma il punto resta. Un allenatore, rispetto a un giocatore, perchè è trattato in maniera diversa?

Eppure viaggi e situazioni di contorno sono le stesse degli atleti, anzi, a ben vedere, mentre un giocatore a fine gara magari guarda le statistiche per gustarsi le statistiche, un coach deve farsi ore di sala video, pensare ai correttivi per la prossima gara, in un lavoro che non finisce mai. Rivers ha affermato di aver visto – dalla tv mentre analizzava una gara – stanchezza e un senso di malessere negli occhi di un allenatore, che ha di lì a poco chiamato al telefono, col suo fare gentile e la determinazione che lo hanno sempre contraddistinto. La “diagnosi” non lasciava spazio a interpretazioni. Eppur si va avanti…

DIETRO IL SIPARIO…

La questione è sorta subito agli onori della cronaca, sia perchè le parole di Rivers – un vincente si badi bene – hanno avuto un grande impatto, sia perchè la salute psico-fisica di soggetti così pagati fa riflettere. Se si pensa che solo poco dopo si è appresa la notizia che David Stern, l’ex commissioner, è stato colto da emorragia cerebrale ed è in pericolo di vita, sembra quasi che si sia rimosso il coperchio da un vaso di Pandora di cui si voleva ignorare il contenuto. Il mondo NBA non è fatto solo di grandi partite e atleti, ma ha anche delle regole non scritte che impongono un lifestyle diverso agli allenatori, anche al netto delle vicissitudini tecniche che sono legate alle preparazioni dei clinic dei match, alle trasferte e quant’altro. I casi di coach Tyron Lue – che lasciò il posto per problemi legati ad attacchi d’ansia – e quelli di Jim Boheim, frustrato perchè sembra pretendere “cose collegiali” dai propri giocatori che vi si rifiutano, verificatisi in quel di Cleveland, devono far riflettere.

Stress mentale e incapacità di pensare ad altro. Per chi è coach – e nella maggior parte dei casi anche ex giocatore di ottimo livello – non sembra esistere un modo per staccare. Si corre tra i monumenti di Washington o si guarda un programma in stile Oprah per dissimulare, ma dura poco. Ovvio che la posizione geografica incide e se sei (o per meglio dire) coach Fizdale, neanche avevi gli svaghi di New York a disposizione per altri motivi – sportivi questi sì – ma la costante è che i coach faticano a trovare una dimensione. Finanche il cibo. Tra buffet luculliani post match in cui bisogna stare attenti a cosa si mangia e soprattutto alla quantità (perchè i coach non sono dei brucia-calorie come i ragazzi che sul parquet macinano kilometri) e la sala pesi, lo stress mentale incide e non poco.

Problemi legati al cibo, rifiutato o ingurgitato in quantità industriali, incapacità di rapportarsi a giocatori che alzano alla panca piena pesi degni di un body builder, costringono alcuni allenatori del circus NBA ad andare oltre i propri limiti. Specie l’ossessione per il “fitness” sembra un prerequisito per poter essere assunti – o essere comunque più appetibili – da altre squadre, in un modus operandi che quindi, come la storia ha insegnato, avrebbe di sicuro escluso dalle piazze prestigiose un coach alla Rick Majerus. Addirittura alcuni studi sociologici vogliono che solo un coach che si allena in palestra con i propri ragazzi sia capace di trasmettere il suo stile e le sue nozioni di gioco, in una condivisione della fatica che diventa una “simpatia” (sun + pathos, dal greco “soffrire insieme”) che porta all’assurdo che un uomo di 50 anni o quasi debba avere la stessa tenuta fisica di una ragazzo di circa 26-27 anni. C’è chi può, leggasi Budenholzer.

SOLUZIONI?

Rivers è stato drastico nel porre una linea, sulla necessità anche di smettere, fermarsi e fare un passo indietro per non rischiare la propria vita. La Nba non ha preso sotto gamba tale problema e ha raccolto tanti pareri, Carlisle si è messo sulla stessa lunghezza d’onda, mentre Terry Stotts e Scott Brooks hanno posto l’accento sul contorno. La verità è che 82 partite, con trasferte, voli a tarda notte e lavoro di complemento sono tanta roba non solo per gli atleti ma per tutti gli staff. Se la lega sta davvero pensando di ridurre le gare quantomeno della regular season, di sicuro ne gioverebbe non solo lo spettacolo ma anche la salute di chi il parquet lo calca e di chi il “carrozzone” lo fa andare avanti, inservienti, ragazze ponpon e finanche mascotte incluse.

D’altra parte però, se si vuole ridurre il numero delle gare che fanno classifica, sostituendole comunque con un torneo mid-season, che dovrebbe assegnare una scelta top 5 al successivo draft, la sostanza cambierebbe poco. Sono finiti i tempi dei Flu-Game di Jordan, delle gare su una gamba sola di Isaiah Thomas o Magic Johnson, della schiena scricchiolante di Pippen e Bird o delle ginocchia a pezzi di Ewing. L’Nba attuale ha grande appeal perchè dispone di macchine perfette che girano ad alti ritmi, ma che si logorano altrettanto fortemente. Solo aumentando i riposi, si potranno evitare problemi che magari non si vedono nel breve periodo, ma che possono avere effetti devastanti sul futuro. E quello che è stato “Zona d’Ombra” per la NFL, non deve essere l’esempio di correzione postuma da adottare nel mondo della pallacanestro.

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