Si parla di NBA, si parla di giocatori, delle loro abitudini e dei loro comportamenti fuori dalle righe quando non si è sul campo. La verità è che in tantissimi scriviamo di basket, cerchiamo le notizie, le statistiche e le storie, eppure certe volte la ricerca dell’esclusiva o del like porta a generare dei completi disastri. Si viene da una settimana nella quale i focus dei media sono andati a segnalare il debutto di Zion come del nuovo Dio sceso in terra, a fotografare il triste disagio mentale che ha afflitto Delonte West e a ricercare – finanche a creare – una lista di giocatori scontenti da inserire nelle possibili trattative della deadline. Se volete poi allargare il campo, pensando a confini meno lontani, basti pensare a due casi che hanno tenuto banco in Italia, come il polverone lasciato dall’intervista – mal tradotta – di un giocatore della Vuelle Pesaro e il piccato scambio di insulti e accuse che Isaiah Swann e la di lui signora hanno mosso nei confronti della JuveCaserta. È ancora possibile parlare di basket?
IL DEBUTTO DI ZION, DELONTE E LOVE
Quando i fari NBA sono puntati, viene addirittura spostato l’orario d’inizio del match tra Pelicans e Spurs. Ne parlano perfino non addetti ai lavori e, come in Italia, si corre perfino il rischio di dire che i Pelicans sono la squadra di New York e non di New Orleans, perché non è concepibile pensare ad altra città che inizi col “New” davanti. Per il prodotto di Duke l’inizio è davvero difficile, con appoggi sbagliati da sotto, qualche palla persa di troppo e che non viene cancellata da qualche bomba pesante nel finale – dote che guardacaso non gli era stata mai ascritta nel suo libretto delle skills – che comunque non permette ai Pels di portare a casa il referto rosa. Tra chi lo paragona a LeBron o a Durant, chi continua a citare i suoi numeri e quelli dei suoi video e chi lo vuole già rookie of the year dopo una sola partita, l’unico risultato che si può ascrivere al momento è un tam tam mediatico non indifferente che però al momento non gli gioverà. Con le dovute proporzioni la situazione è come quella del debutto di Lonzo Ball, in cui papà Lavar aveva monopolizzato aspettative e giudizi. Sarà la stessa fine per Zion, che tra l’altro nella squadra di Lonzo ci è finito?
La situazione di Delonte West e quella – riportata proprio recentemente – di Kevin Love, sono lo specchio di come il basket NBA possa essere uno sport logorante a livello mentale. Ora, il diritto di cronaca ci impone di portare alla luce eventi del genere, ma la sensibilità deve essere la stessa di quando, in determinate situazioni, si è scelto di schierarsi o meno. Il pensiero editoriale americano è chiaro, nel bacchettare gli off courts, pensate alla polemica tra gli Heat e Dion Waiters, o agli eccessi degli Iverson, degli Sprewell e così via. Di Delonte West si sono sottolineate sempre il genio ondivago sul campo e la sregolatezza fuori, con battute a buon mercato che si sono sprecate; così come per Kevin Love, troppo spesso “trollato” come anello debole della squadra di LeBron, incapace di aiutarlo fattivamente e ora definito da tutti come il più scontento di restare a Cleveland e desideroso di una trade che lo porti ovunque.
La verità, forse con buona eccezione per Waiters, è che di fronte a problemi mentali come il bipolarismo, sindromi di attacchi di panico o doppia personalità, la stampa americana sembra aver volutamente steso un velo di Maya, di problemi che vengono ignorati per fare dei meme, dei post simpatici, per sottolineare gli errori, se pensate a JR Smith e a quel famoso tiro libero la risposta è facile. La verità è che quando giocatori del genere poi sbottano, sono vittime di questi problemi, si tende a cercare di correggere il tiro, di riaccoglierli, di tessere lodi ed encomi, che sono piene spesso di ipocrisia e frutto della solita ricerca di un like. Serve una maggiore tutela da parte di tutti gli organi di informazione, siano essi ufficiali, ufficiosi, riconosciuti o scritti da semplici appassionati, senza che debbano scendere in campo avvocati che contestano il passato o difensori della propria patria che ne tessono le lodi a prescindere.
ITALIAN PRIDE…
Guardando in Italia, la situazione che è stata accesa dalla vicenda dell’intervista di Eboua è paradossale di un movimento che forse non è proprio così limpido come si crede. Travisare le parole e costruirci un caso è cosa tanto facile quanto scomoda, dimostrare la malafede è impossibile, anche perché la volontà di colpire – qualora ci fosse – sarebbe comunque collegata a sentimenti interni di chi ha scritto e non spiegabile dall’esterno. Trovare la giusta informazione e leggerla – ancor prima di scriverla – con occhi limpidi e privi di pregiudizi è il primo passo che chiunque si approccia alla scrittura dovrebbe fare, al fine di ottenere un buon risultato. Se poi si è solo alla ricerca di un like, un mi piace o un retweet, come purtroppo almeno per i canoni italiani sembra essere, si dovrebbe ripartire da zero e ricominciare da cose semplici e genuine, ma questa è purtroppo una mera utopia.