Se in NBA si stesse cercando la squadra più ignorata e (forse) sottovalutata della Lega, sicuramente i Portland Trail Blazers risponderebbero adeguatamente al quesito. Nonostante due leader chirurgici al tiro, un palazzetto da antologia, un posto in classifica nelle “home-seeded” dei playoff dell’Ovest, sembra quasi dimenticarsi diquello che Lillard e compagni stiano scrivendo.
Nella squadra che veste il rossonero, in una mole di gioco che unisce sostanza a dinamismo, sta emergendo un ragazzo di cui spesso si parla poco e spesso mai per il campo, ma che ha un gran fegato (per non dire stomaco) e, numeri alla mano, potrebbe tranquillamente ambire al premio di most improved player of the year: Jusuf Nurkic.
Una storia che qui a Basket Sofa vale la pena raccontare per tanti aspetti, per un ragazzo che magari non era un “Basketball lover” ma che vale sicuramente di più dei suoi principali titoli, relativi alla sua lingua lunga, a qualche litigio e gomitata di troppo. As always, enjoy your read and love basketball
L’UOMO CON LA VALIGIA NEI BALCANI…
Yusuf Nurkic, fino ai 14 anni, non aveva mai messo piede in una palestra né aveva mai toccato un pallone da basket. Nulla di strano, ma la vera e propria cosa che deve far meravigliare è il motivo per cui qualcuno che ha a che fare col mondo cestistico si avvicina a lui. L’uomo in questione è Enes Trnovcevic, un agente, che su un quotidiano legge una notizia di cronaca in cui un agente di polizia è riuscito, in un alterco con dei malviventi, a venire a capo della situazione, sistemandoli a dovere: piccolo dettaglio erano in 14 contro 1.
Quando va a conoscere il poliziotto, si ritrova di fronte una montagna, oltre i 2 metri di altezza e ben oltre i 120 kg, magari in là con gli anni e quindi inutile al suo progetto, ma si dà il caso che Nurkic sr abbia un figlio, Jusuf appunto, che fisicamente glielo ricorda, è ancora giovane e soprattutto non ha più scarpe da mettere visto che non se ne trovano della sua misura. Trnovcevic porta il ragazzo in Slovenia, gli fa respirare l’aria del parquet e lo inserisce nel contesto dello Zlatorog Lasko. Il ragazzo cresce e si dimostra valido, viene aggregato al roster dell’Olimpia Lubiana per il Nike Tournament, in cui il suo nome inizia a essere annotato dagli scout, ma quando ritorna nella sua squadra di provincia resta mestamente seduto in panchina, litigando con coach e compagni.
Valigia già pronta – dicevano i maligni e non saranno smentiti – perché la chiamata è arrivata dal Cedevita, in Croazia, a Zagabria. Qui ha due coach da cui impara molto: da Aleksandar Petrovic come si sta in campo, come si sputa sangue su ogni pallone, da coach Jasmin Repesa, che arriverà l’anno successivo, come controllarsi sul parquet con quel fisico e quell’imponenza che spesso lo mettono dietro la lavagna per mano degli arbitri.
… ED IL SERBO CHE LO RELEGO’ IN PANCHINA
Quando arriva la chiamata NBA non si può dire di no. È una scelta che i Bulls dirottano a Denver in uno scambio poco chiaro, visto che proprio la Windy City era in rifondazione e cercava un centro dinamico, ma il Colorado non è poi un ambiente così male.
Il suo approccio col basket americano gli permette di avere spazio di manovra e di contatto maggiore, ma il suo tonnellaggio spesso è un problema. Nell’estate fra la prima e la seconda stagione si fa seguire da un trainer specializzato che, detta in soldoni, trasforma la sua massa grassa in massa muscolare. Niente più suv di ordinanza per lui, una bici nei sobborghi di Denver e si comincia a pedalare. I risultati si vedono sul campo, perché le sue cifre crescono, ma sono le circostanze che divengono difficili. L’arrivo in gruppo di Nikola Jokic sposta e non poco gli equilibri. Ora, se già per un bosniaco ed un serbo è difficile stare nella stessa stanza, specie per chi come loro è figlio della sanguinosa guerra degli anni ’90, figurarsi cosa deve essere stato per Nurkic vedersi in un amen declassato a riserva, da un giocatore indubbiamente più talentuoso, ma che di fatto fa il tuo stesso identico ruolo, ossia pivot con mani chirurgiche dedite anche e soprattutto al passaggio.
Tra un infortunio e qualche parola di troppo non gradita a coach Malone, la rottura con i Nuggets è inevitabile, ma la franchigia del Colorado, con molti sensi di colpa, gli mette le offerte davanti sulle sue possibili destinazioni, dandogli la possibilità di scegliere. Si va a Portland.
RIP CITY LIFE
Quando arriva a Portland, l’incontro con coach Terry Stotts deve essere stato un po’ come quello tra George Karl e Shawn Kemp ai tempi dei Sonics: si sono trovati, capiti e senza dire nulla all’altro, sapevano esattamente che avrebbe funzionato. Difesa ragionata, anche un po’ sporca, molto attenta e meticolosa, attacco in cui le sue mani servono, ma sono anche al servizio dei due frombolieri Lillard e McCollum, e soprattutto libertà e minutaggio.
Per la prima volta Nurkic ha trovato un coach che non solo gli desse la fiducia che voleva ricevere, ma anche che gli abbia lasciato la libertà di esprimere quel basket grezzo, agonistico ma soprattutto esplosivo che sa fare la differenza a queste latitudini. La benedizione avviene qualche gara più tardi, in un half time in cui Portland era sotto. Lillard, mentre la squadra va mesta in spogliatoio, lo vede lì, ancora seduto sulla panchina con asciugamano in testa, rabbioso, furioso: lo prende sotto la sua ala e gli mostra lo spettacolo del Moda Center. Per la cronaca Portland avrebbe poi vinto quella gara.
Da quando è in maglia Trail Blazers, ci sono punti, rimbalzi, ma anche assist proprio come quel Jokic che gli ha preso il posto. Per non essere da meno, ha ritoccato i suoi highs personali al primo confronto contro Denver con 33 punti e oltre 20 rimbalzi, primato all time per un ex alla prima al ritorno a casa. Nel mezzo, la lite con Westbrook e quella con George (e sembrerebbe proprio un bel primo turno Thunder – Blazers) e le dichiarazioni secondo cui Bryant lo avrebbe apostrofato in Bosniaco in una gara di qualche anno fa allo Staples. Coincidenze e talento? Un connubio unico, in salsa Slivovitz.