Altro giro altra corsa. Moneyball ci ha egregiamente fatti commuovere per come Oakland, non certo il più florido dei luoghi sulla terra, non avesse avuto il suo riscatto sportivo con il baseball, ma se guardiamo ai Golden State Warriors il discorso cambia, e di gran lunga. Ed ecco la truppa di allegri perdenti che si costruisce con buone scelte e Kevin Durant, che viene osteggiata quando mette 5 all star di prime donne in quintetto e appare invincibile: in realtà lo è anche perché tra titoli vinti e finali perse sulla cresta dell’onda ci sono Curry e compagni da un bel po’. Se si guarda ora la classifica della Western Conferrnce, il record recita 4-19, peggio anche degli assai derelitti New York Knicks. E proprio quando la squadra veniva accolta e trasportata a San Francisco, con la nuova arena e il main stream, ecco che tutto sembra andare a rotoli, in un ciclo ampiamente non destinato a ripetersi.
UN UOMO IN MISSIONE
Criticato e criticabile, Steph Curry ha avuto il merito di dare la sua chiara impronta al gioco di Steve Kerr. Tiri impossibili da prevedere e marcare, un concetto di Slam Ball portato agli estremi e un pieno controllo della partita e del corpo che ne fanno non solo un perfetto fromboliere ma anche un ottimo stratega. Eppure – e la critica è suonata puntuale da tante parti – nelle Finals vinte non c’è mai stato il suo nome di MVP al termine delle serie, in cui è pesata ora la difesa di Iguodala, ora l’energia di Durant e ora ancora la difesa e il cuore di Klay Thompson. Quest’anno poi la diaspora e gli infortuni hanno allontanato qualsiasi stella dal parquet – il che giustifica fino ad un certo punto il record deficitario – e Curry, che avrebbe dovuto e potuto iniziare il collage con D’Angelo Russell (anche lui ai box per altro) che viene lasciato nel dimenticatoio.
Non sono i tempi di Baron Davis, Monta Ellis, Jason Richardson, ma il record è addirittura peggiore di quelle annate in cui a quintetto si avevano Biedrins, Cabarkapa e Troy Murphy. Al momento il motore dei Warriors è lasciato a giovani di buone speranze come Paschall e Cauley Stein, cui si associano Russell, Robinson, Burks e Draymond Green. L’orso ballerino merita una postilla. Passare da collante e ministro della difesa a invisibile e impalpabile è davvero un processo che si è visto raramente in NBA, anche perché per le sue caratteristiche non è un giocatore di squadra, ma anzi uno di quelli che griffa personalmente il foglio delle statistiche. La verità di questo record, al netto delle assenze, è proprio il calo verticale di un giocatore centrale come Green, la cui cattiveria agonistica al momento non riesce a infervorare i compagni e forse è più adatta come leadership delle piccole cose se a fare quelle grandi ci sono le stelle, piuttosto che quella trascinante di giovani giocatori alle prime armi.
L’IMPORTANZA DEL SECONDO VIOLINO
Serve e serviva come il pane. Klay Thompson sarà fuori per tutta la stagione, come annunciato da Kerr a inizio anno. In quella frase non si è forse appieno capito quanto sarebbe stata pesante questa assenza. Senza voler essere esposti alla pubblica gogna, Klay Thompson è il più grande secondo violino della storia dai tempi di Pippen. Da solo sarebbe una grande stella luminosa ovunque, ma il suo essere duttile e capace di integrarsi con i compagni lo rendono ancor più forte e talentuoso.
Gioca di lettura, gioca di classe, sfrutta i compagni per prendere blocchi e smarcarsi, teoricamente cambia su tutti in difesa e lo fa con competenza. Dietro al 5 switch di Kerr che valeva la partita nei momenti chiave in difesa c’è tanto di Klay Thompson. Se ne è parlato davvero troppo poco di lui come vero asso nella manica di Golden State, perché era davvero quello che poteva fare tutto e farlo bene e soprattutto farlo in qualsiasi momento della sfida, senza nessuna paura. Non è un caso che, ben più di Durant, lo si cercasse sul mercato già quest’anno quando era ai box, ma i Warriors se lo sono tenuto stretti, ben più di tanti altri pezzi della squadra dei sogni e dei titoli.
IL GIOCO, IL RECORD, IL FUTURO…
Non conta solo avere gran dose di talento, serve anche farlo giocare bene. Dal punto di vista difensivo bisogna avere gli uomini giusti, Kerr al momento a parte Green non ha gente che di solito si sbatte in difesa, quindi in questa carestia la difesa asfissiante di Golden State dei finali di quarto periodo è un ricordo. Molto di quel record deficitario è sintomatico proprio rispetto a questo dato. Eppure se pensiamo ai Warriors ci vengono subito in mente le triple e una motion offense alle volte portata all’estremo e con spaziature perfette. Se il sistema funzionava anche con un baller puro come Curry, dovrebbe essere la stessa cosa ma così non è.
Laddove gli Spurs usano un modo di giocare standard indipendentemente dal fatto che in campo ci sia DeRozan o il Lonny Walker di turno (occhio al ragazzo coi dreadlock), il gioco di Kerr sembra poter funzionare solo con superstar che si adattino. Non il caso della squadra attuale che non a caso ha preso imbarcate da chiunque e che aspetta impaziente il ritorno di Steph e Klay. Basterà? Forse no. La ricostruzione dopo un ciclo di big stars non è mai facile, ma farlo con contratti pesanti di giocatori che devono rientrare da infortunio è peggio, anche perché il mercato è di fatto bloccato ed esitante proprio dei responsi dall’infermeria. Potrebbe essere una lunga stagione e potrebbe anche non rivedersi il bel tempo passato, eppure sono in tanti a sperarlo. Perché i Golden State erano una squadra che divertiva e faceva divertire e che ha fatto appassionare in tanti alla pallacanestro.