Si vince e si perde con apparente facilità nel mondo NBA. Quando però a fare eco è la caduta di una dinastia come quella dei Celtics, di sicuro bisogna prestare bene l’orecchio a quelle che sono le voci da una squadra che, ogni qual volta sembrava battuta, ha sempre trovato la forza di rialzarsi e di mostrare il proprio valore. La puntata di Basket Sofa di questa settimana si concentrerà su Boston, sui perché di un Giannis Antetokoumpo così dominante e sul futuro di una franchigia che, in qualche modo dovrà ripartire. As Always, Enjoy Your Read and Keep lovin’ basketball…
LA “VERITA’” FA MALE…
Quella gara 1 in cui Horford era stato semplicemente assurdo e il primo quarto di gara 2, in cui il Dio Greco della palla a spicchi aveva avuto difficoltà assurde, sbagliando l’impossibile, sembravano essere la storia già scritta di come il “pride” e il cuore della squadra biancoverde stessero scrivendo l’ennesima pagina da annali della storia. Il 4-1 finale racconta decisamente una favola diversa, di sicuro non quella che il cantastorie Paul Pierce aveva immaginato. I suoi pronostici, a più riprese sbagliati, frutto più per l’amore di quei colori che non fondati su un’analisi tecnica, sono il chiaro scollamento tra la realtà della Boston di questa stagione e quella che “doveva” essere. Squadra fatta di individualismo in attacco, alla mercè delle volontà di Irving, che non ha saputo prendersi il proscenio in difesa, laddove la mano di coach Stevens avrebbe dovuto fare la differenza.
Paragonati a quelli dello scorso anno, indipendentemente da chi è arrivato a puntellare la rosa, chi era assente e simili questioni, i Celtics hanno di sicuro fallito l’appuntamento col destino, impelagandosi in una pallacanestro che non può certo produrre forzature, isolamenti e abbassare il livello di tutti i singoli. Perché Tatum non è il rookie rampante che sembrava, Smart ha sempre – nel corso della sua carriera – cozzato contro infortuni di varia natura e Hayward, chiamato ad un ruolo di aiutante dalla panchina di certo non ha reso come le sue stagioni in Utah. La serie con Indiana, altra squadra di fattori e di alchimie spezzate, forse aveva illuso e non poco: il futuro a Boston rischia di essere nebuloso e buio, e non solo perché John Havlicek se ne è andato…
LE DUE CAMPANE: STEVENS E IRVING
Dopo aver subito un 4-1 senza storie da Milwaukee ci si aspetta autocritica da parte di un coach, e coach Stevens non delude le aspettative, prendendosi di petto tutta la colpa di una sconfitta che affonda le sue radici in più punti.
Non serve che siate voi a dirmelo, dopo anni da head coach posso sicuramente capirlo, è stato il peggior anno della mia carriera, non ho fatto un buon lavoro. E se alle fine della tua giornata, arrivi a questa conclusione, non puoi che metterti di nuovo sotto, e provare qualcosa di nuovo su come migliorarsi e migliorare.
Gli addetti ai lavori piazzano lì la domanda sul futuro della squadra e non poteva essere differentemente. In una squadra dove Irving, Horford, Morris, Rozier e Baynes potrebbero salutare di qui a qualche settimana, tutto fa pensare che questa sconfitta non sia solo il presente, ma potrebbe essere un passato. Ci si aspetta – questo è scontato – la firma di un grande nome, e tutti gli indizi portano ad Anthony Davis, ma basta questo a rasserenare coach Stevens?
Non è questo il momento di parlarne o anche solo pensarci. Possiamo prestare attenzione alle chiacchiere e alle possibilità di trade, ma non si programma nessun futuro solo con i rumors. Non penserò a un giocatore finchè non sarà nel mio roster, è la mia linea di pensiero. Guardando ad oggi, o se volete a quello che è stato, è chiaro che non abbiamo rispettato quello che si poteva pensare su di noi. Abbiamo avuto un andamento altalenante per tutto l’anno, è stato tutto molto difficile. Penso, e l’ho detto ai ragazzi in spogliatoio, che loro abbiano comunque mostrato carattere, uscendo da situazioni difficili e rimanendo uniti ed è stato forse questo che ci ha penalizzati in questa serie: non siamo riusciti a giocare di squadre così come avremmo voluto.
Le parole di un coach si sa che possono davvero fare la differenza, ma quando dietro al microfono c’è quel leader che doveva portarti a fare il salto di qualità, il discorso cambia sensibilmente. Kyrie Irving ha giocato una serie decisamente sotto tono, tirando malissimo dal campo e soprattutto ristagnando nel suo small-ball che, a seconda dei risultati sono croce e delizia delle squadre che ne hanno avuto i servigi. Le sue parole fendono l’aria, non ha nulla da tenersi dentro, e devono indurre a riflettere, anche in vista di chi (Lakers, Nets e Knicks) sarà chiamato a prenderlo, visto che la sua partenza sembra imminente.
Non c’è motivo per essere dispiaciuti o meravigliati, ci hanno letteralmente messo al tappeto e dobbiamo imparare la dura lezione per il futuro. Hanno fatto quello che volevano, ma alla fine hanno meritato la serie. Sui miei tiri non c’è da commentare, ho pensato di fare la scelta giusta, quella che rifarei, non mi pento di niente se non di averla messa dentro, è solo una tappa del mio viaggio con la pallacanestro in valigia, se continuerà qui o altrove, beh, lo staremo a vedere.
Se le sue parole non certo prive di vetriolo sono state riportate da tutta la stampa come un manifesto dell’Irving-pensiero, poco risalto si è dato a quelle di Smart, che ha preso letteralmente il suo compagno per mano e ha puntato il dito contro le tante, troppe critiche che gli sono state mosse. Perchè in fondo, lo spirito dei Celtics, di Auerbach, Cousy e Russell, di Bird, Parish, Ainge, Havlicek e Pierce è sempre quello, prendersi cura l’uno dell’altro, come in una grande famiglia. E se qualche lite, qualche sconfitta potrà arrivare, di sicuro non sarà questo a spezzare la storia della dinastia biancoverde di Boston.