Basket Sofa Story: Kevin Heurter e la forza di un sogno

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Si parla tantissimo di ultimi giri di giostra: Vince Carter sembra aver deciso di voler continuare per un altro anno e non si può che ringraziarlo, Dirk Nowitzki fa alzare in piedi ogni spettatore di ogni palazzetto in cui i Mavs stanno svezzando il talento di Doncic – qualora ve ne fosse ancora bisogno – ed il “World Tour” di Dwyane Wade nella sua ultima annata sui parquet NBA regala aneddoti ed emozioni che vale la pena raccontare, ogni maledettissima volta, con quella foto, lo scambio delle maglie ed un sorriso a 32 denti. Non si vive di solo canestro e boxscore, per chi ama davvero quella palla a spicchi, per chi sente il profumo del cuoio e lo squittire delle scarpe sul parquet, il basket è emozione. Questa storia, che riempie la puntata settimanale di Basket Sofa, merita di essere raccontata perché magari sembrerà un film, magari sembrerà poco veritiera, ma è la dimostrazione che cuore e talento possono portare ai più grandi traguardi e che come diceva Michael, “i limiti, come le paure, spesso sono solo illusioni”.  Signori e Signore, a voi, Kevin Heurter.

UN PAIO DI SNEAKERS E LA VELOCITA’ DI FLASH

E’ un ragazzo newyorkese, magari non quello dei principali playground, su cui comunque deve aver bazzicato, ma è il classico good guy che unisce il talento alla disciplina. Versatile, capace di giocare un po’ ovunque, data l’altezza e la sua apertura alare, Kevin Heurter non passa inosservato nei sobborghi della Grande Mela, e quando alla fine sceglie la High School a Compton Park, con la maglia di Shenendehowa, sono in tanti a ritenerla un’occasione persa. Invece il ragazzo cresce e dimostra una precisione chirurgica al tiro. Prende una squadra che aveva solo una volta aveva visto le finali dello stato e la riporta lì, segnando e divertendosi, finendo inevitabilmente sotto l’osservazione degli scout. Lo si ritiene un trascinatore, uno di quei giocatori che ti fa fare il salto di categoria, osservazione tutt’altro che peregrina ma che non è tutta farina del suo sacco, anzi si può dire che la ha nel DNA. Thomas Heurter sr, che gli ha insegnato la giusta postura di tiro e che la velocità si costruisce in ogni singolo momento, non solo in allenamento, era il play di Siena University – leggasi 1 sola apparizione al Torneo NCAA – che ad inizio anni 90, a sorpresa, non solo riuscì a qualificarsi al torneo, ma a prendersi lo scalpo della #3 Stanford, in un upset storico per il basket collegiale.

Oltre che dal padre, anche il fratello, Thomas Heurter jr è stato indispensabile per poterlo far diventare un giocatore che oggi vanta un pedigree NBA di tutto rispetto. È lui l’avversario di 1 vs 1, dietro casa, sulla porta del garage, è con lui che la velocità di pensiero aumenta, è con lui che si prova e riprova quelle sneakers della Converse, griffate Miami Heat, di un giocatore che è un idolo, oltre che un modello, Dwyane Wade, che ha da poco iniziato la sua carriera in Florida. Ampliare le doti difensive, migliorarsi ancora e farlo in maniera silenziosa – oltre ad avere un tiro perfetto si potrebbe aggiungere – sono le skills che cerca di emulare dal prodotto di Marquette, i fatti ci diranno che l’allievo ha ben imparato il tutto dal maestro.

MARYLAND ED IL DRAFT

Si deve scegliere il college, per un ragazzo che non è solo pallacanestro, ma che è anche un fine umanista – diploma di laurea (americano) in letteratura – non un dilemma da poco, visto che le lettere sono ammassate sulla sua scrivania. Visita vari campus e qualche network cerca di carpirgli la risposta prima del tempo: Villanova è data come favorita come pedigree cestistico, Notre Dame ha il campus più bello che abbia visitato, alla fine però, proprio nell’ultimo giorno per la firma del “Committed” sceglie Maryland, che ha tradizione cestistica ma che, salvo Alex Len – che a Phoenix ricordano bene – non ha avuto scelte di primo giro a contratto garantito. Non importa, sarà un Terrapins. Da Freshman fa vedere numeri interessanti, da Sophmore si prende la squadra sulle spalle, in attacco e in difesa, aggiungendo assist e soprattutto rimbalzi alla sua solita dedizione sul campo.

Alla fine del secondo anno lui non sceglie di andare al draft, ci va con la cosiddetta formula “two and done” ossia con la possibilità di tirarsi fuori all’ultimo per poter fare un altro anno di università e ricandidarsi per la prossima tornata. Tutti a Maryland sono convinti di questo ritorno, anche perché si presenta 1) senza agente e 2) con un tendine della mano – quella con cui tira – con una lesione appena operata e che necessita di riposo, che avviene proprio all’apice della sua fama, in un match che decide sotto gli occhi della nazione contro Northwestern e che, di fatto, conclude anzitempo la stagione dei Terrapins. Fa un workout con i Lakers, Magic lo guarda impressionato, ne fa altri, i media si interessano a lui, ma timido e schivo com’è non risponde a nessuna provocazione, fino a che gli Scout, stropicciandosi gli occhi, non analizzano a fondo la questione del tutore che indossa. Sta mostrando doti “chirurgiche” di tiratore con una mano di fresco operata e non al top. Diventa una top pick, firma subito con una agenzia e subito si sparge la voce: magari non è da prime 5, ma la sua presa con un contratto fra la 9 e la 20, è un affare, per talento e costi. Arriverà prima Atlanta, che lo mette nel suo bel pacchetto di rookies con Trae Young.

L’INCONTRO

A Di Stefano era capitato di incontrare il suo idolo dei campi di calcio sul tram che lo portava al campo di allenamento del River, il che gli aveva dato tanta fiducia, figurarsi cosa significa essere sullo stesso parquet e trovarsi di fronte il proprio idolo. Wade da qualche addetto ai lavori viene a sapere la storia del ragazzo, lo sfida in partita più volte in uno contro uno, lo “testa” a suo modo, sorride e continua ad analizzarne i movimenti.

Finisce la gara, non importa il punteggio, Kevin starebbe tornando al proprio spogliatoio quando un inserviente lo chiama, gli dice che lo stanno cercando. D-Wade smette la sua canotta e gli chiede lo scambio, con la foto. Heurter non sa se piangere, morire di gioia o doversi rimboccare le maniche, perché l’investitura è pesante, il fardello da portare grosso e ingombrante. Commosso, quando poi sentirà le dichiarazioni di “Flash” a fine gara, la sua storia raccontata e di quanto il #3 degli Heat lo stimi per quello che ha visto sul parquet, non può che mancare una risposta, pur da un ragazzo schivo e riservato che nasconde molto la sua personalità dentro il suo gioco: “Non posso che ammirare D-Wade, era il mio idolo, il giocatore a cui mi ispiro, non solo sul campo, ma anche e soprattutto per aver dedicato tutta la sua carriera a Miami. E’ un simbolo, una bandiera”.