Da qualche tempo in NBA c’è stata un’inversione di tendenza per quanto riguarda gli head coach. Se prima la maggior parte delle squadre puntava sull’esperienza, cercando figure che garantissero una percentuale di vittorie data dalle stagioni passate, o su ex giocatori che conoscessero bene il modo di ragionare dei roster, ora si cerca maggiormente un coach con idee nuove e che abbia un progetto ben chiaro in testa, da formare e modellare a seconda del progetto che si intende sviluppare in una franchigia. Per questo motivo alcuni team hanno puntato su giovani con alle spalle esperienze da assistant coach o in uscita da un programma collegiale.
Di questi, quello che ha maggiormente dimostrato di essere un allenatore al top nella lega è Brad Stevens, che siede sulla panchina dei Boston Celtics dalla stagione 2013-14.
Dopo aver guidato Butler University per sette stagioni e aver portato la talentuosa squadra del 2010 al Championship Game (Gordon Hayward, attuale giocatore di Boston, era la stella di quella squadra) ha accettato di fare il salto in NBA in una squadra storica che aveva come obiettivo quello di ricostruirsi dopo l’era vincente del trio Garnett-Pierce-Allen e prendendo il testimone dall’esperto Doc Rivers.
Come da previsioni, quella squadra con talento piuttosto rivedibile e scarno, non andò oltre le 25 vittorie stagionali, classificandosi al 26° posto, ma fu utile a gettare le basi su cui Ainge iniziò a costruire il futuro dei Celtics, diventato ora un presente solido e radioso.
LA RINASCITA
A cominciare già dall’anno successivo, dove con un roster tutto sommato simile a quello dell’anno precedente, l’aggiunta di un rookie solido ma non particolarmente talentuoso come Marcus Smart e una scommessa come Jae Crowder, è riuscito a migliorare il record arrivando alle 40 vittorie stagionali e raggiungendo i playoff per la prima volta in carriera.
Da lì un continuo crescendo di risultati e altre tre stagioni (inclusa questa in cui si sono già assicurati un posto ai playoff) con record sopra il 50% e soprattutto con costante crescita rispetto alla stagione precedente.
Stupisce che Stevens riesca a migliorare la squadra di anno in anno, continuando comunque a rivoluzionarla e sfruttando l’ottimo lavoro in tal senso del GM Danny Ainge, altro grande artefice della ricostruzione verde.
Della stagione 2013/14 non è rimasto un singolo giocatore a roster oggi. Uno solo (Marcus Smart) dalla stagione 2014/15, due (Smart e Rozier) della stagione 2015/16 e quattro (Smart, Rozier, Brown e Horford) rispetto alla scorsa stagione. In pratica, a parte i rookie che hanno avuto un impatto, un solo giocatore veterano pare abbia preso una casa un po’ più stabile in Massachussets.
Stevens si è quindi dovuto adattare e trasformare molto in queste cinque stagioni e lo ha saputo fare con il materiale a disposizione e nonostante gli infortuni che ha dovuto fronteggiare.
BRAD IL CAMALEONTE
Facendolo ha variato di molto da stagione a stagione il ritmo e il bilanciamento tra gioco offensivo e difensivo, mantenendosi sempre al top della lega in termini di Net Rating e cercando di imprimere all’attacco i concetti di share the ball, nonostante le difficoltà per la mancanza di talento offensivo, costante presente nei roster a disposizione.
Quest’anno probabilmente è arrivato il suo capolavoro. Costruita per appoggiarsi sul trio Irving, Horford e Hayward, la squadra ha dovuto fin da subito rinunciare al talento dell’ex Jazz, che ha visto frantumarsi i sogni di una prima stagione da protagonista in maglia biancoverde insieme alla sua tibia nei primi 5 minuti della stagione. Come se non bastasse, il 41enne coach nativo di Indianapolis, ha dovuto anche rinunciare a: Kyrie Irving da 14 gare (and counting) per un intervento di pulizia al ginocchio, a Marcus Smart prima per un infortunio piuttosto sciocco (per usare un eufemismo: ha dato un pugno a una fotografia in hotel), poi per un più serio problema al tendine della mano che lo terrà fuori almeno fino a metà playoff e a Daniel Theis, fuori per il resto della stagione per un infortunio al menisco.
Nonostante questo i Celtics sono al secondo posto nella Eastern Conference a distanza di sicurezza dai Cavs, hanno già raggiunto le 50 vittorie e sono a solamente due dal pareggiare il record dell’anno scorso. Il tutto con ancora otto partite da giocare: un mezzo miracolo se si considera le vicissitudini stagionali.
Eppure, Brad Stevens ha saputo trarre il meglio dai propri giocatori. Ha messo Jayson Tatum nelle migliori condizioni possibili per dare il massimo, oltre al fatto che ovviamente il ragazzo ci ha messo moltissimo del suo e ha saputo rivitalizzare un giocatore ormai diventato un peso per le squadre e ai margini della lega come Greg Monroe, trovandogli una dimensione utile alla squadra. Oltre a questo si danno quasi per scontate la crescita di un secondo anno come Jaylen Brown e la concretezza di Terry Rozier, quest’anno nel novero dei nomi di chi potrebbe arrivare dietro ad Oladipo per il MIP e di Marcus Morris, che pare aver incanalato il talento sui giusti binari senza deragliare in comportamenti dubbi avuti in passato.
È proprio questa capacità di valorizzare il materiale che ha anche permesso ai Celtics di avere asset spendibili sul mercato per migliorare la squadra: Isaiah Thomas, Avery Bradley e Jae Crowder, sono tutti giocatori che Danny Ainge ha deciso di sacrificare per migliorare la squadra o per ottenere ulteriori asset spendibili, nonostante le ottime prestazioni in maglia Celtics (non ripetute nelle nuove squadre). Lo stesso potrebbe valere in futuro per Terry Rozier o Marcus Smart, anche loro sacrificabili o non confermabili per le stesse ragioni, se come pare i Celtics potrebbero fare altri movimenti di roster nel caso ci fosse la possibilità di arrivare a un Anthony Davis o un’altra star di alto livello.
Insomma, Brad Stevens oltre a far rendere la squadra al meglio, è un allenatore vero, di quelli che migliora i singoli e sa sviluppare un progetto. Una caratteristica, quest’ultima, sempre più fondamentale e ricercata per una franchigia NBA capace di guardare al futuro.