Brandon Hunter, simbolo di un basket da non prendere a esempio

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Brandon Hunter è morto a 42 anni, apparentemente dopo essere collassato al termine di una lezione di yoga. Lo speculare sul padre, sul marito e sull’uomo che era è una delle ossessioni morbose preferite dal giornalismo italiano, sportivo e non, quindi non lo celebreremo agiograficamente come la prassi dell’informazione nostrana prevederebbe. Ci vuole rispetto e tatto nello scrivere, nella nostra piccolissima e insignificante pretesa del ricordo, di una persona che ha lasciato per sempre famiglia e affetti da qualche ora appena. Ciò che può giovare in eterno alla sua persona è contestualizzare e inquadrare le tappe che hanno incrociato le nostre per farci rendere conto di quanto sia stato importante nel momento in cui lo è stato, e come non lo sarebbe potuto essere attualmente.

Brandon è stato protagonista di diversi avvenimenti non più proiettabili nel basket contemporaneo, ai quali guardare con la speranza di vederli replicati oggi non solo è ingeneroso ma addirittura obsoleto. Dinamiche, protagonisti ed evoluzioni non consentono a tutti gli ambiti di una struttura di vivere una sorta di eterno ritorno. Ciò che è stato è stato e non potrà più essere, non necessariamente in meglio o in peggio rispetto all’attualità ma semplicemente inattuabile. Sospirare “Ai miei tempi…” è necessario per l’espressione emotiva della sfera umana, cestistica anche, ma non può essere l’approccio corretto per un’analisi di quei e di questi tempi.

Il 22 giugno 2004 Brandon Hunter viene scelto dai neonati Charlotte Bobcats, subito scambiato a Boston. Quello di Hunter è l’ultimo NBA Expansion Draft della storia del basket americano e, al netto del possibile allargamento a 32 squadre, non si parla della stessa modalità di acquisizione dei membri delle nuove franchigie. Dopo un paio di stagioni tra Celtics e Magic, Brandon Hunter opta per il trasferimento nella pallacanestro europea. Non sorprendentemente, l’approdo è una squadra di EuroLeague: a causa di un infortunio al polso, però, l’esperienza al Panathinaikos dura solo metà stagione.

Quello che segna lo scarto tra la pallacanestro dei nostri padri e quella attuale è il passaggio successivo: da una squadra di EuroLeague alla Napoli di Lynn Greer e Ansu Sesay, vincitrice della Coppa Italia dello stesso anno. Una Carpisa che si poteva permettere acquisti da Real Madrid e Dinamo Mosca, impensabile per qualsiasi squadra italiana del 2023 che non sia Olimpia Milano o Virtus Bologna.

L’anno successivo Brandon Hunter sarà a Livorno, ultima classificata della Serie A, quello dopo a Biella, 12° in LegaBasket, quello dopo ancora alla Sutor Montegranaro, annunciato dal presidente della società siciliana in seguito al taglio di Shawn Kemp. Non si tratta di nostalgia e di coprire con una patina magica tutto quello che riguarda il passato, ma prendere lucidamente coscienza del quadro attuale: un giocatore nel pieno della propria carriera, con l’impatto e una parabola potenziale da NBA, che rimane per 3 stagioni consecutive a un livello globalmente medio del massimo campionato italiano. Aspirare a tornare a quel livello nell’immediato, replicando lo stesso modus operandi, sarebbe deleterio. Lo si potrebbe fare se si fosse intrapreso (o non interrotto il precedente) un percorso che affondi le radici in lungimiranza e investimenti. Che resti in pace Brandon Hunter, e con lui il basket italiano che ha vissuto.

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