Cantù spreca il massimo vantaggio su Rimini (83-75) negli ultimi due giri di lancetta e, dopo aver preso tre triple consecutive tra disattenzioni sul perimetro e una scivolata di Moraschini sull’ultima conclusione vincente di Tomassini, non riesce a ribaltarla sulla sirena con Baldi Rossi grazie a una stoppata di Justin Johnson che al piano superiore avrebbe meritato l’instant replay e che comunque inchioda il risultato sull’83-84.
Finale rocambolesco a parte, così però non va bene: perché la seconda sconfitta nella fase a orologio, nonché settima in stagione, non solo riapre del tutto la corsa al secondo posto nel girone verde con Torino (penalizzata dagli scontri diretti, ma ora a due punti di distacco e con una partita in meno), ma dà anche ulteriore corpo a diversi interrogativi già girati per la testa anche al termine di partite che hanno invece visto l’Acqua San Bernardo uscire vittoriosa dal campo.
Partiamo doverosamente dalla difesa, con un postulato fondamentale: per avere lo slancio capace di farti uscire dal gorgo dell’A2 (torneo tosto per definizione) e andare più in alto, c’è una sola posizione da assumere, ovvero quella a gambe piegate e sedere basso per contrastare l’avversario. Cosa che Cantù fa al momento solo a intermittenza e per di più con le fasi di “stand by” che sono generalmente assai più lunghe di quelle “on”: a volte finisce bene, come nel successo su Trieste, altre volte può finire in beffa come nella partita contro Rimini, in cui le statistiche registrano nel secondo quarto 24 punti subiti con un solo fallo speso di squadra e il nostro taccuino 5 punti consecutivi di Grande (che valgono il 27-30 da 27-25) con Hickey sempre un attimo in ritardo nel capire le mosse del suo uomo e nessun compagno ad aiutarlo. Giusto un flash non per gettare la croce addosso al play dell’Acqua San Bernardo, ma per sottolineare come a mancare non è la voglia ma l’applicazione mentale: quella che Cantù, per restare all’ultimo match, esercita al ritorno sul parquet dopo l’intervallo e che vale un immediato 7-0 in 60” (da 43-45 a 50-45). Ma anche quella che ancora una volta si smarrisce immediatamente dopo e che nell’arco dei 40 minuti impedisce tra l’altro di porre argine nel colorato a Justin Johnson, trascinatore di Rimini al pari dell’altro americano Marks (20 punti a testa).
Per questa Cantù, inoltre, la vecchia regola che un buon attacco nasce dalla difesa vale ancora di più: perché in assenza di veloci contropiede da palla recuperata o di rapide transizioni da rimbalzo difensivo l’Acqua San Bernardo finisce assai spesso per tentare – più o meno sulla sirena – un tiro da tre, arma a doppio taglio per definizione. E che lo diventa ancor di più se alla ricerca di soluzioni alternative prevale invece l’ostinazione a provarci da oltre l’arco confidando che prima o poi il pallone muova la retina: l’1/8 di Moraschini e l’1/5 di Bucarelli contro Rimini ne sono un esempio, ma si sarebbe potuto tranquillamente trattare di altri loro compagni (come accaduto in passato), perché la questione non riguarda i singoli ma l’approccio di squadra e tante volte la palla “rimane in mano” a un giocatore piuttosto che all’altro.
Situazione preoccupante, quindi? A questo punto della stagione sicuramente una situazione da affrontare senza più indugi, perché una reale continuità difensiva e una maggiore poliedricità offensiva sono imprescindibili per arrivare più avanti all’obiettivo dichiarato e tra un paio di settimane per giocarsela alla pari contro le agguerrite avversarie della Final Four di Coppa Italia, in quella che sarà anche una prova tecnica di eliminazione in vista dei futuri playoff. Nelle sue analisi post-partita coach Devis Cagnardi appare sempre lucido nell’elencare gli errori da evitare e i fattori da migliorare, e probabilmente ne sono consapevoli gli stessi giocatori: la sfida, per staff e roster, è riuscire a far scattare la levetta in posizione “on” dalla palla a due e lasciarcela poi per un bel po’ di minuti, sicuramente più di quelli in cui è accaduto non solo contro Rimini. (Paolo Corio)