Ritrovare Pesaro, il mare e le sue meraviglie, quella fiamma di basket che arde pur sempre, anche sotto il moggio di una stagione disperata, sul fondo della fossa. Amici ritrovati, che cambiano soltanto il colore dei capelli, non quello del cuore, alla scoperta dell’unico gioiello pesarese ancora inesplorato dopo le innumerevoli trasferte di una raminga vita di basket. Come, ad esempio, una mattina al Museo Benelli, la vecchia fabbrica nel centro della città, tetti in sequenza di triangoli, mattoni rossi e legno, che dentro sembrava ancora di sentire il risuonare del ferro e delle lamiere, un capolavoro, per tutti, non soltanto per i patiti del “motore”, un simbolo del tempo in cui l’Italia era patria di maestri del fare: immaginare e costruire… Per non parlare del ristorante di Alceo, Mago del pesce…
Tergiversiamo. Prendendola alla lontana.
Poiché il fulcro era il Palazzo, la Vitifrigo Arena, sempre piena (oltre 32.000 presenze), incontro di popoli con bandiere diverse e una comune passione. Le curve, nemmeno un incidente, una su tutte, quella della Fortitudo, che sono sempre in tanti ma cantano sempre come una voce sola. Indipendentemente dal risultato. Tutto bello. Proprio bello.
Coppa Italia, che si è rivelata una “questione adriatica”, non soltanto per la sede (assolutamente da riproporre), con Venezia che discendeva la costa fino a Pesaro per scontrarsi in finale con Brindisi, che invece la risaliva. Con il pepe dell’imprevisto, delle ultime qualificate (Venezia ottava alla fine del girone di andata e Brindisi settima) che saranno prime.
La vittoria della Reyer
Ha vinto la Reyer, per tantissimi motivi strategici, ma forse uno, tattico e specifico, sopra tutti gli altri: perché ha Mitchell Watt. Che per noi è il prototipo del giocatore “moderno”, almeno nel campionato italiano. E’ alto, perché nel basket non guasta, sa tirare da oltre la linea per eventualmente alleggerire la pressione di avversari più grossi e pesanti, ma, soprattutto, sa giocare in post basso, spalle a canestro (citofonare all’osannato Tarczewski: lo avete visto? in semifinale, quando Watt andava spalle a canestro e Tarcisio era un giocatore morto?).
Rimane impressa l’immagine e l’impresa di Walter De Raffaele, livornese, navigato timoniere, di altro porto ed altro mare, e di come in finale abbia saputo “togliere l’acqua ai pesci”, e fare infrangere sull’ipotetico Mose l’onda dell’entusiasmo di Brindisi (alla seconda finale consecutiva). La Happy Casa ha un terminale offensivo, Adrian Banks, che alla fine gli uncini, bene o male, da qualche parte li infila (27 punti), mentre le fortune della squadra di Frank Vitucci, risiedono spesso nel gioco in movimento fatto di transizioni in campo aperto, con i suoi due lunghi, Tyler Stone e John Brown, interpreti eccellenti per rapidità ed atletismo. Bene.
Il capolavoro di De Raffaele?
Canalizzare su Banks tutto il gioco pugliese, facendolo assai faticare (4/15 dal campo), costringendolo a sudarsi il bottino ai tiri liberi (15/15), contemporaneamente annullando completamente gli altri due (Stone 0/9 e Brown 1/4): togliere l’acqua ai pesci, appunto, o se volete, la terra sotto i piedi, inaridendo il campo proprio dove Brindisi era solita fare il raccolto più abbondante, poiché la difesa (quella veneziana) non è soltanto fatta di grinta e spigoli acuti, ma anche di “letture” per colpire al cuore la squadra avversaria, e toglierle ciò di cui vive. Si. Un capolavoro…
Leone di Venezia, leone di San Marco… Con la spada ed il vangelo nella mano… Ha sbranato proprio tutto. Austin Daye ha vinto il titolo di Mvp, nel nome e nella città del padre, Darren, a Stefano Tonut la palma di miglior difensore, e poi, tanto ancora, in profondità.
Perché a Pesaro si è giocata anche la fase finale della NexGen Cup, bellissima manifestazione, vero e proprio campionato italiano Under 18, e a vincere, in finale contro Reggio Emilia, è stata ancora la Reyer con il suo gioiellino, Davide Casarin, Mvp: il figlio di Federico, presidente reyerino. Intreccio con il futuro già annodato.
Divagazioni, sul dominio veneziano, quasi fosse un’eco, da lontano. Ad est dell’Adriatico, dove Venezia una volta estendeva la sua opulenta mano, tracce di Italia con Andrea Trinchieri che vince la Coppa di Serbia, mentre Maurizio Gherardini e Gigi Datome con il Fenerbahce conquistano quella turca…
Falchi che tornano tacchini
Tergiversiamo? Ancor di più. Per non parlare di Milano?
Con ordine, però…
Nel dopo partita del quarto di finale inaugurale contro Cremona (86-62), alla pizzeria” L’Artista” di fronte al placido mare, agli eccellenti commensali abbiamo rivolto una semplice domanda, con altrettanto semplice premessa. Quattro giorni prima al Forum, sempre contro Cremona, una (stentatissima) vittoria all’ultimo tiro, ed ora una larga (di 24 punti) vittoria, quasi una passeggiata salutare, e dunque, la domanda: qual è stato il giocatore della svolta, quello dalla prestazione eccellente per Milano? Dopo un attimo di ripensamento la risposta è arrivata unanime: “Nessuno, in particolare”. Bene. Dunque, la risposta giusta era: la squadra! La successiva e logica deduzione: finalmente si è vista la squadra che vuole Ettore Messina? E nessuno avrebbe accettato di scommettere un centesimo sulla mancata vittoria dell’Armani.
Invece?
E’ bastata la semifinale contro Venezia (63-67)… Perché i falchi ritornassero tacchini. Quelli che appena si alzano in volo, subito ricadono pesantemente al suolo. Mistero! Che ormai dura da troppi anni.
“Le percentuali offensive non hanno reso onore alla difesa”. Giusto, lucido il commento a fine gara, guardando il risultato. Lo capiamo. Ma non lo accettiamo. Perché sarebbe come dire, banalmente: avessimo segnato un punto in più degli avversari, avremmo vinto la partita… Perché sarà anche vero che “il basket è uno sport di errori” e vince chi ne commette meno, ma il 4/27 da 3 punti esige più ampia riflessione, il passaggio dalle emozioni, quelle belle di un “ciuff” o quelle negative del risuonare del ferro, alle ragioni, ad un basket che deve diventare “scienza del perché”. Se i tiri presi sono soprattutto quelli del “respingimento”, ovvero perché non si è trovata altra e diversa soluzione e chi tira alla fine è in obbligo di farlo, allora le percentuali diventano semplicemente il sintomo del problema. Tutto questo avviene, forse, perché il gioco interno di Milano, intendiamo quello di posizionamento, è carente, poiché ha il solo Luis Scola come interprete, che un poco le misure gliele stanno anche prendendo?
Piuttosto. Anche contro Venezia, l’Armani era partita benissimo (19-7) poi progressivamente si è spenta. A fronte della Reyer che ha la caratteristica di iniziare sempre con tre italiani in quintetto mentre i vari Daye, Bramos, Stone o Chappell entrano successivamente. E Milano, molto umilmente e magari soltanto parzialmente, non potrebbe riprodurre il modello, trasformando i vari Rodriguez, Micov e Scola in “giocatori di incremento” nel corso della partita, piuttosto che di logoramento?
I messaggi finali
Concludendo. Dalla Final Eight di Coppa Italia…
Primo messaggio. Certo che Venezia è tornata, eliminando nell’ordine la Virtus Bologna, Milano e Brindisi, con le quali aveva perso nel girone di andata. “Fino a giugno abbiamo lo scudetto cucito sulle maglie”, è il mantra di Walter De Raffaele. Poi si vedrà. A quel poi, dovranno fare tutti molta attenzione.
Secondo messaggio. La Coppa Italia ha decretato la vittoria del basket razionale su quello emozionale/viscerale. E non parliamo soltanto della vittoria della Reyer, ma anche della eliminazione di Sassari ad opera di Brindisi (86-91), quando la Dinamo nelle ultime 15 conclusioni ha tirato 12 volte da 3 punti, con i due lunghi avversari, Stone e Brown, entrambi a 4 falli.
Però è stato bello. Tutto. Troppo bello.