Giardino Zen: il paradiso perduto (part.2)

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Leggi anche la prima parte.

La prima volta che sono entrata al Garden era il febbraio del 2001, il 1° febbraio per la precisione. Avevo già vissuto la vastità verticale dello Staples, l’atmosfera collegiale della Conseco Field House di Indianapolis e quella Disney World che a Miami chiamano l’American Airlines Arena. L’ingresso riservato ai giornalisti alla Mecca sembrava una scena di The Departed di Scorsese: saletta angusta, facce da schiaffi e un ascensore rumoroso che scendeva verso il basso. Il Madison, una volta dentro, è come un abbraccio, ti scalda piano, non ti tramortisce, sussurra un po’, come fanno le conchiglie che avvicini alle orecchie, quasi che tutte le voci e le urla che si sono accavallate lì dentro abbiano preferito vagare tra gli spalti piuttosto che tornare alla vita di tutti i giorni. In sala stampa si conoscono ad uno ad uno, per nome e parenti, perfino quelli degli inviati giapponesi, ma nessuno vuole darti una dritta. A New York sei tu che devi decidere quando e come osare il primo passo, se aspetti l’aiutino da casa ti asfaltano. E il Madison non fa eccezione. Sono lì per seguire i Sixers di Allen Iverson, ma per una volta tiferò contro. Tra i Knicks gioca Latrell Sprewell e io adoro Latrell Sprewell, lo adoro dai giorni in cui ha strozzato PJ Carlesimo, che per altro, quasi un anno prima, a Los Angeles, mi ha dato dimostrazione di essere un autentico stronzo. L’obbiettivo è intervistare l’Otto con le treccine a fine gara.

Ive chiude con 32, 8 assist, 5 rimbalzi, 2 palle rubate e la solita rumba tra la difesa blu-arancio. Latrell, dall’altra parte, ha fatto tutto ciò che Allan Houston si è disinteressato di fare nella propria metà del campo. Eppure è incazzato. Incazzato nero. Ha sbagliato il jumper che avrebbe riportato i Knicks sull’80 pari a pochi secondi dalla fine. Entrare negli spogliatoi al Madison non è come nelle altre arene, c’è un addetto che, se non ti conosce, ti segue con un registratorino su espressa richiesta del proprietario James Dolan. La stampa è il nemico a New York. Al Madison un nemico privato. Spree non esce più dalla doccia, mi stanno per cacciare, ma quando l’addetto mi accompagna all’uscita, lui fa il suo ingresso nello spogliatoio deserto con l’asciugamano fradicio ancora attorno alla vita.

“Sono venuta dall’Italia per intervistarti…”

“Sit.”. Siediti.

Quarantacinque minuti di tête-a-tête con uno dei miei poster milanesi fattosi carne, ossa e disponibilità. Anch’io alla fine ho vissuto il mio momento di gloria nel Giardino dell’Eden, ma questa è tutt’altra paleolitica storia.
I Knicks da allora hanno messo in piedi una campagna di auto-sabotaggio senza precedenti nella storia del basket professionistico. Ogni franchigia ha commesso i suoi peccati originali, ogni franchigia ha chiamato qualche nome sbagliato al giorno del draft, ma nessuna ha smesso di imparare dagli errori del proprio passato abbandonando anche la più vaga intenzione di raddrizzare la rotta. I Knicks, vent’anni fa, al posto di concedere a Ewing (faccia, dignità e nerbo della franchigia per i precedenti 15) un’estensione del contratto di due anni, hanno strapazzato la loro stessa bandiera fino a spedirla a Seattle con la scusa di regalargli l’ultima chance di anello; 5 anni dopo, al posto di creare spazio salariale per attrarre Kobe Bryant (free agent a fine stagione) verso La Mecca, hanno riportato Marbury in città a gennaio accanto al compagno ai Nets Keith Van Horn, spedendo invece Antonio McDyess a Phoenix assieme a Howard Eisley e a un’altra bandiera locale, Charlie Ward.

Non si sono smentiti neppure nel 2010, ripetendo lo stesso errore quando il Nuovo Re da portare in città, nel più attraente mercato NBA, era niente po’ po’ di meno che Sua Lebronità James. No, si sono giocati malissimo anche quella opportunità, ripiegando su Carmelo Anthony nel febbraio 2011, al posto di attendere la sua free-agency. Ci sono miriadi di cazzate che mi vengono in mente nel mezzo: ingaggiare Isiah Thomas come presidente delle operazioni, firmare Jerome James, acquisire il nostro Bargnani quando ormai aveva poco da dare al basket americano e al basket in genere, accordare un’estensione di sei anni e 100 milioni di dollari ad Allan Houston manco fosse originario della Scozia e con il soprannome di Duncan MacLeod per poi utilizzare l’amnesty clause su Chauncey Billups nel 2011, bandire dal Madison Square Garden Lui, Charles Oakley, il Madison Square Garden fatto uomo secondo le scritture – cazzo – il più amato Knicks degli ultimi 40 anni – cazzo – il primo pezzo del domino che ha originato lo sfracello karmico dei Knicks delle ultime stagioni. E il tutto perché aveva osato comparare un biglietto per la partita vicino a quello di Dolan per provare ad esprimergli il proprio disappunto su come stava gestendo la sua amata squadra.

No, l’unico motivo per cui i Knicks si trovano nella situazione in cui sono oggi ha un nome e un cognome: James Dolan, la vera ragione per cui nessuna superstar vuole venire in città pur sognando segretamente di incarnare la Nuova Statua della Libertà con uno spalding nelle mani.
J-A-M-E-S D-O-L-A-N: l’elefante nella stanza, un proprietario così spocchioso, maniacale con la stampa, maldestro quanto a gusto e sale sportivo e vendicativo da aver alienato ogni free-agent con pedigree interessato ad evoluire sul parquet più glorificato, epico e stimolante di tutta la Lega, ultimo e più chiacchierato nella lista Kevin Durant.

Nel 2013 i Knicks sembravano aver recuperato faccia e competenza cestistica: stabilendo un nuovo record NBA per triple convertite, orchestrando l’attacco più produttivo nella storia della franchigia, sperimentando con i quintetti e tornando ad essere divertenti da guardare, otre che vincenti. Dopo vent’anni come fanalino di coda della lega quanto a percentuali di vittorie, i Knicks non avevano solo successo, ma avevano successo perché erano innovativi, lanciando per aria una trentina di triple a partita e sfruttando la small ball prima che i Warriors trasformassero entrambe le cose in religione a spicchi. E proprio dopo aver mosso il primo passo nel futuro in anticipo su tutti gli altri, hanno deciso di rigettarsi nel passato, firmando Phil Jackson come presidente e rinverdendo nel 2014 la sua visione di basket “triangolare” rimasta ormai senza interpreti.

Non ci sono molte cose che mi mancano della vita da giornalista sportiva, l’ho vissuta appieno, in quelli che reputo siano stati gli anni migliori per svolgere quel lavoro da sogni, gli anni pre-social media, gli anni in cui contava saper cercare una notizia e saperla raccontare al mondo piuttosto che vendere un personaggio indipendentemente da cosa si raccontasse. Eppure la prima volta che ho visto i sette piedi e quattro di Porzingis illuminare il Madison Square Garden con il suo talento, avrei voluto prendere quell’ascensore scricchiolante verso il basso per accomodarmi nella sala stampa newyorkese e godermi lo spettacolo.

Kristaps è un unicorno, e uno dotato di grossi coglioni tra l’altro, perché non è da tutti, a vent’anni, venire fischiato al giorno del draft da una intera città pretenziosa per poi calcare il primo parquet americano che vedi tre mesi dopo come il figlio illegittimo di Kareem Abdul-Jabbar un momento e la versione lettone e sbruffona di un giovane Durant il momento dopo. Mi è bastata la prima inchiodata di un alley-oop nel traffico per amarlo, e non avevo visto ancora niente. Non avevo visto il suo turn-around jumper, dopo aver dato le spalle ai difensori più bassi, o le sue triple prese in territorio proibito per un sette piedi e quattro, il territorio di Steph Curry tanto per intenderci; non avevo visto le sue mani delicate, i tiri in sospensione che richiedono poco spazio e tempo per il rilascio, non lo avevo visto in campo aperto e lasciato libero di inventare, un derviscio di 2 metri e 20 che richiede gli istinti e la plasticità di Kawhi Leonard per essere infastidito o la cazzimma truffaldina di Draymond Green per essere sfiancato.

Invece Phil Jackson è riuscito ad alienare anche lui, dopo Carmelo Anthony, ad intristire il suo basket e le rinate speranze dei newyorkesi con pagine e pagine di attacco triangolo da studiare a casa mentre il resto del mondo NBA gioca e pensa un basket diverso.
Quando a una franchigia viene regalata una chance del genere dopo aver già usufruito della più improbabile delle ventate di aria fresca, leggi Linsanity, ciò che si merita è il contrappasso biblico che sta vivendo: una squadra che non ha più rilevanza sportiva in un palazzetto che è il più rilevante nella storia dello sport americano, una dirigenza di inetti quali Steve Mills e Scott Perry che preferiscono firmare obbiettori di coscienza al posto di stelle talentuose nella città col tifo più marziale d’America.

Dolan si vanta del 98% di capienza del suo pubblico, della sua presenza fissa in arena a differenza del “russo che guarda i suoi Nets dall’altra parte del mondo”, ma la verità è che il pubblico del Madison meriterebbe ben altro spettacolo e ben altro proprietario, la verità è che a New York non si va al palazzetto come a Los Angeles, per farsi inquadrare dalle telecamere accanto all’attore di Hollywood di turno, o come a Philadelphia per sfogare la propria rabbia o la propria gioia, o come a Detroit, perché non c’è niente di meglio da fare; a New York i tifosi riempiono ancora i seggiolini della Mecca perché sono convinti che la loro presenza almeno in singola sera possa davvero fare la differenza, perfino in una stagione da 20 vittorie su 82; perché far finta di niente non fa parte della newyorchesità, perché dimenticare non fa parte della newyorchesità, perché mollare non fa parte della newyorchesità, ma risollevarsi insieme sì.