Possiamo definire l’esperienza al Bamberg il turning point della tua carriera?
Senza dubbio. Lì ho capito effettivamente come adattarsi al proprio ruolo all’interno di una squadra. Per la prima volta nella mia carriera non ero io quello che toccava più palloni, quello a cui ruotava tutto attorno. In Germania ho fatto esperienza del sacrificio sul campo: giocare contro Olympiacos e Real Madrid mi ha proiettato in un universo cestistico fino al momento sconosciuto.
Raccontaci il tuo passaggio all’Olympiacos. I biancorossi, in quella offseason, avevano già destinato gran parte del budget per altri profili come Josh Childress e Linas Kleiza. A posteriori si può dire, però, che è stato il tuo arrivo a segnare l’inizio della fondazione e dello sviluppo di una dinastia pluriennale. Concordi?
Se si vanno a rileggere i nomi dei giocatori di quel biennio si trovano un sacco di atleti che hanno avuto una grandissima carriera. Dorsey, Antic, Sloukas, Papanikolau… Al tempo, però, la decisione della dirigenza era quella di affidarsi a un core giovane, alle prime esperienze al massimo livello. Per fortuna siamo stati capaci di trovare da subito un’ottima chimica, abbiamo messo poco tempo per conoscerci. Coach Ivkovic ha fatto un lavoro enorme e, paradossalmente, sottovalutato. Ancora oggi si fa fatica a riconoscere quanto grande sia stato vincere due EuroLeague consecutive con un gruppo così giovane. Anche i veterani, nonostante una lunga serie di infortuni, hanno aiutato incredibilmente dentro e fuori dal campo.
Immaginiamo che allenarsi con Spanoulis fosse una fonte d’ispirazione imparagonabile. Cosa rendeva Vassilis diverso da tutti gli altri?
In primis la persona che è, il carattere che ha, la leadership che ha espresso. La passione e l’orgoglio che metteva sul parquet ogni singolo giorno erano clamorosi. Da lui era impossibile non ereditare l’amore per il Gioco: parlava di basket, guardava partite di basket, approfondiva ogni aspetto. Per essere un grande giocatore devi conoscere il Gioco, devi studiarlo e comprenderlo, e lui è stato il migliore che io abbia mai visto. Tutta la sua routine, tutte le sue abitudini erano finalizzate alla miglior performance sportiva possibile.
Parlaci di “Just a Kid from Sicklerville”, la docuserie uscita anche su YouTube. Com’è stato coinvolgere anche la tua famiglia nelle riprese?
Con mio fratello e il mio migliore amico abbiamo pensato di mostrare come fosse la vita di un cestista americano che gioca in Europa. Discutevamo sempre di quanto fossi fortunato di giocare a pallacanestro: è vero che l’NBA è l’NBA, ma i ragazzi che hanno l’ambizione di diventare professionisti devono comprendere che c’è altro. Il nostro obiettivo era quello di dare dei riferimenti per chi si approcciava per la prima volta a un mondo nuovo: all’inizio sei senza affetti, magari con pochi soldi, in un paese che non parla la tua lingua. È difficile, non lo nego, ma non impossibile. Mi sembrava giusto mostrare tutti gli aspetti del quotidiano, quelli più entusiasmanti e quelli più complicati. Noto che questo è stato fonte d’ispirazione anche per altri giocatori americani per mostrare la loro esperienza: alcune dinamiche sono comuni ma ognuno ha la sua particolarità. Non tutti hanno vissuto la nascita dei figli al mio stesso modo, ad esempio. Tramite lo sviluppo dei social network ora esistono canali diversi per comunicare, c’è più possibilità di interagire…