NBA, la maledizione dei numeri primi: Chris Paul e il posto nella storia

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Potrebbe essere l’ennesimo giocatore di talento sconfinato a finire la carriera senza un anello. Non che le vittorie, i numeri, o i trofei servano a descrivere chi sei, ma l’aura che accompagna Chris Paul e le squadre con cui ha giocato, non sempre sono quelle più positive. Se finalmente il taboo delle finali di conference sembra essere stato spezzato, per il nativo del North Carolina c’è ora da superare la prova più importante: affrontare quello che l’intera lega considera il playmaker del futuro e batterlo, prendersi un posto alle Finals che per chi è, ma soprattutto per la carriera che ha scolpito finora, CP3 meriterebbe.

Si può essere scettici su tante cose, come ha fatto Golden State nella serie e tanti già prima di Steve Kerr, battezzarlo anche al tiro, ma Chris Paul ha qualcosa di speciale nelle vene. Non serve ricordare la partita dei 61 punti in onore del nonno che gli aveva insegnato tanto, né quell’infinita serie di gare a Wake Forest, dove potrebbe insegnare pallacanestro quando vuole con una cattedra a lui dedicate. Il ragazzo cresciuto in North Carolina è un uomo di fede e di principio, il rappresentante dei giocatori per l’intera lega, uno di quelli che è anche andato contro la propria dirigenza se c’era da alzare la voce, a New Orleans prima e contro Sterling ai Clippers poi. Eppure nonostante i tanti crediti con la fortuna, la sorte ed il caso, il carnet delle vincite sembra sempre vuoto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

THE CURSE OF LOS ANGELES…DAI LAKERS AI CLIPPERS

Incrociare gli Spurs della leggenda nell’anno migliore in maglia Hornets, finire ai Clippers dopo che il commissioner ha vietato i Lakers, avere un allenatore vincente ma un contesto che non riesce ad appagare la mente, sono le frustrazioni di un ragazzo dal talento sconfinato ma che a stento, se i fasti son propizi, riesce a scavalcare il primo turno della post season. Sia che guardiamo nell’armadio dei ricordi di New Orleans che, ancor di più, in quello di LA, la verità fa male: occasioni sprecate, per non dire fallimento. Tutto questo avviene forse perché intorno a lui la squadra è fatta di grandissimi atleti, in alcuni casi purosangue di razza, ma non di anime affini che sappiano parlare la stessa lingua sul parquet. Questa non è di certo la carriera del miglior playmaker puro degli ultimi 10 anni di NBA.

Il flash forward va fatto e ci porta allo scorso giugno, quando finisce, un po’ a sorpresa, ai Rockets di Mike D’Antoni, con un dispendio di giocatori ed economico che per un trentenne “maledetto” – stando ai soliti aruspici a stelle e strisce – è a dir poco eccessivo. Le premesse non sono delle migliori, visto che la preaseson non è granchè, ma ancor di più si presenta alla sua nuova franchigia con un ginocchio malandato già dai primi giorni. Sembra finito dopo la prima gara che passa per lo più seduto a guardare, mentre quando è in campo spara a salve. Il momento della resa con i propri demoni sembra giunto, visto anche che si trova a stare in una squadra che gioca una pallacanestro che – in NBA – a meno che non hai Durant, Thompson e Curry, non ha mai vinto anelli.

 

 

 

 

 

 

LA REDENZIONE TEXANA

Doveva essere un fallimento, doveva. I numeri non vale la pena citarli, ma le situazioni di gioco sì che sono importanti. D’Antoni aveva previsto tutto. Magari al “Barba” Harden è necessaria una mano a gestire i finali, magari serve anche un cervello a portare a casa azioni veloci e di lettura delle spaziature, magari se si deve sgravare l’ex Thunder di qualche responsabilità, un giocatore di attributi, carisma ed esperienza può fare il suo ben più di chiunque altro del gruppo. Il contesto di Houston sembra essere l’elisir di lunga vita per CP3, che di fronte non ha forse la squadra più talentuosa e concreta per vincere il titolo, ma di sicuro ha un gruppo di compagni che credono in quello che fanno, che mettono il gioco al servizio della vittoria.
È eloquente il tutto nelle parole post gara 2 della finale dell’ovest da parte dello stesso playmaker, che magari non regala emozioni nel suo sguardo, ma fende l’aria con le sue parole:

Non è cambiato nulla rispetto a gara 1, abbiamo fatto le stesse cose, ma meglio, tutti quanti”. – Pausa scenica mentre controlla le statistiche, e poi… “Abbiamo messo più triple e tirato meglio, concesso meno a loro difendendo di più, non è cambiato nulla nel gioco, siamo cambiati noi.

Semplice e lineare, non servono aggettivi troppo complicati. Paul è il giocatore che tutti vorrebbero avere nella propria squadra, uno di quelli che sul campo mette molto della sua personalità; perché il ragazzo sa cosa vuol dire lavorare sodo, giorno dopo giorno, come quando in estate lavorava su quel ball handling all’ossesso con papà e CJ, suo fratello. Sa cosa vuol dire dover prendersi cura della famiglia, come gli ha insegnato suo nonno, mentre gli dava una mano alla stazione di servizio. Sa cos’è il valore della giustizia, come suo zio, agente di polizia, gli ha sempre mostrato, nel bene e nel male.

Non sappiamo la piega che prenderà la serie, specie dopo che Kerr ha notato e sicuramente annotato sul proprio taccuino quanto Paul abbia “fatto male” al buon Curry in gara 2. Magari ci saranno dei correttivi, ma di sicuro ciò non fermerà certo Chris dal voler dire la sua su quel parquet, dove riesce sempre e comunque a incantare, per regalare a Houston il coronamento di un processo, ai suoi compagni la certezza di scrivere il proprio nome nella storia, ma soprattutto a se stesso quei pochi secondi in cui, commosso, potrà guardare al cielo da vincitore e senza più rimpianti e sorriderne.