NBA, LaMarcus Aldridge: la sindrome della nostalgia

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Se ci si vuole riferire ad un evento che prende luogo sempre più raramente nella quotidianità di un ambito specifico, l’immagine del panda è ricorrente. Il pacifico animale golosissimo di bambù è manifesto simbolico di tutte le specie che si vogliono salvaguardare e il cui numero di esemplari continua ad assottigliarsi però sempre di più. Traslando la visione in termini cestistici, il tanto elegante quanto sconsigliato in termini statistici midrange jumper sta vivendo una generazione difficile. Il culto raccoglie sempre meno adepti e i pochi predicatori spargono il Verbo in un deserto assolato e arido. L’unico grande esponente rimasto nella Lega (insieme al sempiterno PointGod) è forse Carmelo Anthony, attualmente in quel di Portland. E proprio lì ha trascorso gran parte della carriera anche chi del fadeaway jump shot ha fatto una signature move, al pari del tiro su una gamba di Dirk, delle schiacciate di Vincredible o dei crossover di A.I. LaMarcus Aldridge. L’intenzione non è quella di tessere lodi e celebrazioni avulse da critiche oggettive nei confronti di uno degli ultimi centri “vecchio stampo” che abbiano calcato i parquet americani. Ma, capiteci, giocare coi sentimenti può provocare una visione distorta della realtà. Soprattutto se l’annuncio del ritiro dalle competizioni è stato così inatteso. Come un fulmine a ciel sereno. Come un colpo al cuore.

Battito irregolare. Aritmia cardiaca. La preoccupazione per eventuali complicanze figlie della sindrome di Wolff-Parkinson-White, diagnosticatagli nel 2007. Il pensiero che corre a Quentin Groves, giocatore di football affetto dalla stessa malattia, morto a soli 32 mentre stava festeggiando in giardino il compleanno della figlia. Immediatamente, uno sguardo rivolto ai due pargoli. Basta, LaMarcus. Il momento di smettere è giunto. Le priorità sono altre, nonostante tutto. Pensate che rimpianto possa rimanere ad un giocatore cui mancano soli 49 punti per raggiungere la pietra miliare dei 20000 segnati in NBA. Il sipario, però, è da calarsi.

LINEA DELLA VITA BIFORCATA

Se non avesse ascoltato i consigli di Shaquille O’Neal, scegliendo di dichiararsi eleggibile già per il Draft 2004 senza frequentare un singolo giorno di college, quale ambiente avrebbe scommesso sul liceale di Seagoville, listato come sedicesimo miglior prospetto dagli analisti americani? Probabilmente nessuno. Nell’epoca dell’obsolescenza programmata, troppo alto il rischio di dover aspettare la maturazione completa di un atleta così giovane.

Se, dopo due anni all’Università del Texas, la seconda scelta al Draft del 2006 non fosse stata oggetto di scambio tra due franchigie, quale destino per LaMarcus? Sarebbe capitato agli Chicago Bulls, in perenne ricostruzione dall’era post Jordan. Al contrario, i suoi diritti vengono scambiati con i Portland Trail Blazers, ben felici di ottenere le prestazioni di uno dei migliori difensori del panorama collegiale. La franchigia dell’Oregon vive una situazione alquanto complicata. Gli antichi fasti di Clyde Drexler. I Nineties e Drazen Petrovic. Un lontano ricordo. Gli anni recenti parlano di Jail Blazers, nickname affibbiato a uno spogliatoio tanto stravagante quanto pericoloso. L’occasione per ricostruire è il biennio 2006-2007. LaMarcus alla 2 e Brandon Roy alla 6 nel primo anno. Greg Oden alla prima assoluta l’anno successivo. La tavola è apparecchiata. Mangiare, sennò si fredda.

Se Madre Natura avesse donato cartilagini e articolazioni sane a Brandon e Greg, oggi staremmo parlando di una dinastia nata sulle sponde dell’Oregon? Il cuore annuisce freneticamente, la mente frena gli animi caldi. LaMarcus, Roy e Oden, i tre pilastri su cui coach McMillan avrebbe dovuto basare le fondamenta di un nuovo progetto vincente, giocano insieme 62 partite. Record? Un impressionante 52-10. Ottimo per una singola annata, direte voi. No. Le 62 partite sono da considerarsi nel lustro 2007-2011, prima che Portland decidesse di tagliare l’onerosissimo contratto di Roy e Greg Oden optasse per appendere le scarpe al chiodo. Le prestazioni di LaMarcus conducono praticamente ogni anno i Trail Blazers ai Playoff. Ogni anno Portland sembra sempre più accreditata per appendere sul tetto del Moda Center quello stendardo che neanche Sabonis e Scottie Pippen hanno saputo regalare alla città gemellata con Bologna dopo l’unico alloro targato 1977. LaMarcus, da solo, non basta. I due alfieri che, insieme a lui, tanto avevano impressionato nelle prime partite da rookie, sono continuamente tormentati da problematiche fisiche.

Se al secondo turno dei Playoff 2014 Portland non avesse incrociato le danze con l’ultimo ballo del trio Ginobili – Parker – Duncan, quell’anello sarebbe ora al dito di LaMarcus? Di nuovo, razionalità e sentimento viaggiano su due rette parallele. Infinitamente parallele. La squadra è chiaramente pronta per il definitivo salto di qualità. La personalità del sophomore Damian Lillard e l’estro offensivo di CJ McCollum, uniti alla duttilità di Batum e alla presenza dominante nel pitturato di LaMarcus, fanno ben sperare. LaMarcus tiene circa 30 punti e 11 rimbalzi di media ad allacciata di scarpe. Che a contrastarlo ci fosse Dwight Howard, Omer Asik o Terrence Jones, poco importa. Canestro. Canestro. Ancora canestro.

Fonte: Rip City Project

Il sacrificio di LaMarcus si apprezza ancora di più nella metà campo difensiva nella quale, dimenticato l’atletismo dei primi anni da professionista, contribuisce con esperienza e letture sopraffine a colmare le lacune del frontcourt di fronte alle penetrazioni di Harden. La tripla di Lillard, uno dei momenti più iconici dello scorso decennio NBA, fa il resto. Trail Blazers – Rockets 4-2. Prima serie vinta da Portland dopo quattordici anni. Ma il destino è colorato di nero argento. L’anno successivo Wesley Matthews, guardia titolare, si infortuna al tendine d’Achille a metà stagione, costringendo i compagni di squadra a uscire al primo turno della postseason contro i Grizzlies versione Grit ‘n Grind.

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