La Los Angeles delle Finals non è molto diversa da quella di Quentin Tarantino in “C’era una volta a Hollywood” tanto ben tratteggiata quanto storicamente imprecisa. Un uomo che prima sedeva in un locale affollato di gente, pronta a riconoscerla, oggi è da solo a guardare da lontano. La sua visione è naufragata in un mare d’incomprensioni, in un lockdown pesante e anche in tanta sfortuna. Quando sei anni fa Doc Rivers prendeva il timone della squadra con “meno tradizione” della lega di Adam Silver, credeva davvero di iniziare un ciclo vincente. E le premesse c’erano tutte con Chris Paul all’apice della carriera, Griffin e Jordan a dar manforte in mezzo e un manipolo di giocatori di contorno interessanti. Ne è passata di acqua sotto i ponti, e curiosamente siamo ancora a parlare di “Rivers“, ossia fiumi, dopo che i Nuggets han mandato a casa la truppa losangelena, che magari vestiva pure la canotta in stile Gran Theft Auto, ma di cattivo ha dimostrato di aver poco. E le parole che il coach lascia sul suo profilo twitter sono il perfetto sunto di una favola sperata, che però si è trasformata in un incubo, vissuto più volte dopo sanguinose sconfitte.
PECCATO MORTALE
Ha ceduto un’infinità di scelte nel tempo, ha sacrificato giovani prospetti – Gilgeous Alexander da ultimo – e giocatori di mestiere, come da ultimo il buon Gallinari, ha lasciato che la follia cestistica di Beverly, Williams e Harrell facesse da contorno a un gruppo in cui Kawhi Leonard e Paul George dovevano essere le punte di diamante. Non nel loro momento migliore – perchè entrambi reduci da infortunio – nè necessariamente le superstar che caratterialmente vanno a sintetizzare la squadra. Eppure la finale di conference non era solo un obiettivo, quanto invece il minimo sindacale, naufragato al cospetto della superstar sbocciata di Murray, nonchè dinanzi a un Jokic che magari avrà fatto rimpiangere la possibilità di un lungo dai piedi veloci che passa la palla e la imbuca in maniera strana.
Diciamo che nonostante le premesse, le circostanze si sono accanite. Da più parti si è vista nei Clippers l’assenza di una vera chimica di squadra, proprio quello che invece Rivers doveva portare con l’esperienza maturata nel tempo in un squadra vincente come i Celtics. Eppure dire che il quintetto formato da Rondo, Allen, Pierce, Garnett e Perkins fosse una famiglia felice era – ed è ancora oggi – un mero eufemismo. E c’è chi sorride del licenziamento di Rivers da dietro gli scranni dei commentatori. Boutade a parte, sono stati i solismi, le forzature e una carenza psicologica ogni qual volta contasse, non solo ad essere palesi di una carenza oggettiva di QI sotto stress, ma anche del fatto che ci fosse una netta frattura tra il coach, la sua personalità, e la squadra. Ecco perchè l’andare all.in su Paul George e Kawhi Leonard – come aveva detto anche il coach dei New England Patriots al buon Doc – poteva regalare ai Clippers un jet che avrebbe volato alto, se fino a destino o a uno schianto era solo un lancio di moneta. Che poi, a voler essere ironicamente onesti, il rapporto tra i Rivers tutti e George non sia idilliaco, questo è risaputo, sia per la storia con la figlia del coach, che per l’astio verso Austin, non a caso partito per altri lidi.
Rivers non ha monetizzato il suo certosino lavoro con i successi, e può addebitare al lockdown molto, al fatto di essere lontano dai suoi ragazzi per qualche mese, senza che poi la bolla di Orlando li unisse, come è avvenuto per molte squadre di fascia medio alta. Proprio però i mesi di quarantena han mostrato lo scollamento che ha portato Steve Ballmer a silurare il suo coach: mentre Doc voleva chiudere la stagione, magari affilare le armi per ripartire più unita, i proclami di Leonard alla squadra erano di matrice opposta. Una divergenza di vedute che appare la chiave difensiva delle scelte sbagliate contro Murray nei finali delle ultime tre gare.
ORIZZONTI…
Il fatto che i Clippers, per sopperire alla partenza del loro coach, un veterano e uno di carisma, scelgano una soluzione interna, ossia Tyronn Lue, che ha vinto il titolo con LeBron sul parquet, ma che per tutto l’anno è stato al fianco di Rivers, appare un tremendo autogol. Non sarebbe la scossa giusta, non ci sarebbe quella verve che per una squadra in rifondazione vedrebbe ancora la scimmia sulla spalla di uno staff che resterebbe mutato. Se però l’alternativa è davvero coach Van Gundy, che ha provato a far qualcosa ai Knicks, dove ci sono evidenti problemi, allora il problema diventa serio. Vero è che i Lakers di quest’anno dimostrano che con un coach low profile come Vogel – ma che nel silenzio predica pallacanestro benedettina di qualità – si può arrivare lontano e far convivere anche le superstar, ma i Clippers, sfortunati per natura, han bisogno anche di quel nome altisonante che risvegli un pubblico pigro allo Staples, abituato alle delusioni.
E Doc Rivers? Già sono arrivate le richieste, due su tutte, la fila si sta formando. Philadelphia pone sul piatto una squadra che ha ancora buoni interpreti e che può andare all-in per ricostruire un ciclo vincente. La scelta dell’ex Celtics però sembra propendere per i New Orleans Pelicans, che hanno una squadra giovane, un roster lungo e giocatori che per caratteristiche difensive ben possono incontrare il gradimento di Doc. Sarà un nuovo ciclo? I Clippers ne hanno bisogno, ma non sanno ancora con cosa ripartiranno nell’armadio. Rivers, invece, nonostante la sconfitta, rischia di cadere ancora in piedi.