Un miracolo sportivo chiamato Spurs:”once again at the top”

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Quando si parla di San Antonio Spurs, il confine tra miracolo e gran risultato è sottile come un foglio di carta su cui sono scritte le statistiche. Solo otto gare fa, appena dopo la pausa dell’All Star Game, i texani balbettavano al margine della zona playoff, inseguiti fiato sul collo da Sacramento e Lakers, a un passo dall’interrompere quella striscia di stagioni con successivi playoff che dura fin dal secondo anno di coach Pop sulla panchina. Contare queste 8 gare e vedere che San Antonio veleggia sesta, le ha vinte tutte, anche contro Bucks, Nuggets, Thunder e Trail Blazers e può ambire a scalare altre posizioni, ha davvero dell’incredibile, specie considerando alcuni fattori. Una ricostruzione quella post Kawhi che è stata di difficile assimilazione. Ed in prospettiva non si può che pensare positivo. Non saranno certo la squadra da battere in post season, ma guai a sottovalutarli perché hanno esperienza e faccia tosta per potersela giocare con chiunque.

INFORTUNI E MANCANZE

Se si pensa che agli Spurs manca il play designato, quello a cui staff e dirigenza avevano affidato le chiavi della squadra e difensive, ossia Dejonte Murray, si può ben capire che il lavoro di rattoppo di quella posizione ha richiesto grande dedizione e sacrificio. Coach Popovich è dovuto scendere a patti con il suo modo di intendere i 5 ruoli, ha promosso Derrick White – anche lui assente agli albori della stagione – a fromboliere principe e vicino gli ha messo un Forbes che magari non sarà mai un All Star designato, ma che porta il mattoncino. Gli Spurs inoltre, che in quanto a scelte tendono quasi in stile collegiale ad aspettare un anno per l’inserimento – a meno che non si tratti dell’Ammiraglio, di TP9 o di Manu – avevano scelto Lonny Walker e Metu pensando di poter contare su di loro con minuti di quantità dalla panchina, ma anche questi sono presto finiti ai box.

La chiave di volta è stata la responsabilizzazione di DeRozan e Gay. Il primo veniva da Toronto con i gradi di mangiapalloni e realizzatore, ed i primi giorni in neroargento devono essere stati una tortura. Ricordo un inizio di stagione complicato, una delle prime gare in un matinee dell’est, con gli Spurs che sono avanti grazie a tre isolamenti di #DRZ10 e Pop che chiama timeout, lascia coach Messina a spiegare il suo pensiero mentre prende da parte la sua nuova stella e gli chiede di entrare in un contesto. Ricordo indistintamente tre perse nei possessi successivi, ma quel sorriso sornione e quegli applausi dalla panchina sono il motivo per cui DeRozan ha mantenuto le sue medie realizzative, ma può giocare 1-2-3 all’occorrenza della squadra, cambiando anche, con le gambe esplosive che ha, in difesa su ogni blocco. Per Rudy Gay il discorso è all’opposto. Arrivava per portare pericolosità dall’arco ed è stato trasformato in un tuttofare che aiuta a rimbalzo, che può condurre il contropiede e che, quando serve, ci mette ancora la potenza e l’energia dei bei tempi.

ALDRIDGE E… LA PANCHINA

Il resto del mondo texano è fissato alla panchina e ad Aldridge. Se c’è una squadra che riesce a responsabilizzare i suoi giocatori, forse solo al netto del buon Brad Stevens, quella è sicuramente San Antonio. Allargare la rotazione significa inserire pezzi nuovi in un contesto, o gente che quel sistema lo conosce già in nuove situazioni. Mills è stato recuperato prima psicologicamente – e il rinnovo contrattuale ha aiutato – e poi tecnicamente: non era l’arma chimica delle ultime Finals vinte, né il fantasma delle ultime due annate. Ora è il vero sesto uomo, il leader silenzioso del secondo quintetto che gioca meno per i numeri e controlla i suoi tiri. I tre europei portano legna e sono l’elemento di imprevedibilità: Belinelli ha pedigree navigato, si prende anche qualche tiro di troppo, nel bene e nel male, ma Pop si fida e lascia fare. Poeltl è il giocatore che più è amato, per doti tecniche, all’ombra dell’Alamo. Il suo percorso di integrazione nelle dinamiche di pick and roll evolve e ne han fatto un giocatore bidimensionale che se raffinerà un piazzato dai 4-5 metri potrà davvero diventare una chiave di volta. Per tutto il resto c’è Bertans, a cui forse manca la presunzione o quella tracotanza di tanti altri europei, ma che di fatto è l’ago della bilancia su ambo i lati del campo.

Non bisogna dimenticarsi di LaMarcus Aldridge. Si tende spesso a sottovalutare i suoi numeri o ad ascriverli come figli di scelte di isolamento programmate, eppure si è ritrovato senza Gasol (prima infortunato e poi ceduto) e con il solo (eroico) Dante Cunningham come sostituto a dover fare reparto da solo. Più volte bistrattato e sull’orlo della cessione, è rimasto perché Popovich gli ha dato il ruolo da prima stella che forse non aveva mai avuto. Ha la possibilità di reggere il confronto sia contro i centri fisici che con quelli tecnici e potendo tirare dal mid-range riesce sempre e comunque a essere un fattore.