NBA, MVP Race: manifesta superiorità

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MVP

Definire quanto il massimo riconoscimento individuale relativo unicamente alla stagione regolare esulando gli emozionantissimi scontri playoff, per quanto prestigioso e ambito nel panorama cestistico statunitense, conti nella testa dei fuoriclasse NBA è ai limiti dell’impossibile. Determinare quanto il desiderio di essere dichiarato uomo partita quando, nella realtà dei fatti, sei ancora nel tunnel degli spogliatoi prima di fare il tuo ingresso in campo, ti spinga a cercare il miglior risultato possibile delle tue performance non è tangibile. A maggior ragione se i criteri per eleggere la classifica ruotano attorno a un concetto di per sé labile e interpretabile. Premio che lascia il tempo che trova? Data la sua natura “ascientifica”, non è in grado di consegnarci una visione oggettiva della superiorità e delle forze in gioco? Può essere. Eppure, se siamo qui a parlarne ogni anno, qualcosa vorrà pur dire. Ottenerlo significa spalancare al vincitore le porte della Hall of Fame. Eleggere il proprio favorito permette all’appassionato, nella maniera più democratica e libera possibile, di rendere manifesta la propria visione del Gioco. MVP. Most Valuable Player. Che lo spettacolo cominci.

COME (NON) RAGIONARE A PRIORI

Istituito per la prima volta nel lontano 1956 in onore dell’allora presidente NBA Maurice Podoloff, il trofeo viene assegnato durante i playoffs ma, come tutti gli altri riconoscimenti individuali, si riferisce alle prestazioni durante le 82 partite di stagione regolare (sì, 82: fateci riassaporare un pizzico di normalità…). Nella prima parte di stagione, infatti, ogni squadra affronta tutte le altre pretendenti al titolo, a prescindere dalla Conference di appartenenza. Il premio, di conseguenza, dovrebbe rispecchiare fedelmente chi abbia espresso il più alto livello di gioco contro ogni avversario possibile. Fin qui, nulla da obiettare. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare l’ecosistema in cui il riconoscimento prende forma: National Basketball Association, la giungla della contraddizione.

MVP Valuable

Il concetto e la semantica misteriosa di valuable lasciano grande spazio a elucubrazioni e riflessioni di vario genere: con “valore, importanza, qualitativamente pregiato”, cosa si intende esattamente? Quali criteri delineano il giudizio dei 101 giornalisti mondiali incaricati dalla Lega per esprimere la propria preferenza (10 punti per ogni voto al primo posto, 7 per il secondo, 5 per il terzo, 3 per il quarto e 1 per il quinto)? Non esistendo una regolamentazione definita, nel corso della storia recente si è riscontrata la tendenza a considerare principalmente tre aspetti. Record di squadra; statistiche individuali; narrativa e influenza mediatica. A seconda della prospettiva, ognuno di questi può assumere una posizione dominante rispetto agli altri due, rendendo la discussione quanto mai effimera e malleabile.

Ovvio, direte voi: più una squadra è in alto in classifica, migliori sono le prestazioni fornite dai propri atleti, maggiori saranno le probabilità che il giocatore del campionato sia da ricercare tra esse. Non ditelo però a Kareem Abdul-Jabbar: nel 1976, nonostante i suoi Lakers non raggiunsero neanche i playoff grazie a un record negativo di 40-42, i giocatori (fino al 1990 erano i colleghi a votare il più meritevole: contraddizioni…) non poterono non riconoscere la superiorità del centro da UCLA.

Ovvio, direte voi: più punti, rimbalzi o assist è in grado di registrare un giocatore, maggiore sarà la sua incidenza e forza sul parquet. L’impatto che ne deriverà sulle prestazioni dei compagni e i risultati di squadra ne saranno una diretta conseguenza. Non ditelo però a Stephen Curry. Il figlio di Dell, unico giocatore nella storia ad aver ottenuto l’MVP Award all’unanimità (non è per dire, “plebiscito” non è termine sufficiente: 101/101, en plein), al rientro dall’infortunio sta ripetendo quest’anno praticamente le stesse cifre del 2016, ma la Golden State che si ritrova a capitanare nel 2021 è lontana parente da quella di 5 anni fa.

Ovvio, direte voi: la storia personale che contraddistingue gli uomini prima dei giocatori, le anime prima dei polpastrelli, il carattere prima della mobilità laterale deve avere un peso nel considerare il percorso che porta l’atleta a raggiungere determinati risultati. La necessità della NBA è quella di presentare personaggi sempre nuovi, alternandoli sul palcoscenico dorato, provenienti dai contesti più disparati, con l’obiettivo di rendere possibile a tutti vivere lo stesso sogno. Se il quarto figlio di una famiglia appena sbarcata in Europa dalle coste africane può permettersi di sognare con gli stessi occhi dl rampollo di casa di una coppia di medici statunitensi lo dovrà alle gesta di Giannis Antetokounmpo. Non ditelo però a Kobe Bryant: anche così si spiegherebbe come il compianto 8/24 dei Lakers abbia ottenuto “solo” un Maurice Podoloff Trophy in carriera. Ne avrebbe meritati molti di più ma, anche se siamo convinti che avrebbe barattato volentieri il premio di MVP col sesto anello, le sue cifre e la sua mentalità suonavano quasi ridondanti alle orecchie dei votanti.

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