NBA & more: bye bye Oakland

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Oakland

Saranno state le preghiere dei gesuiti, che continuano ad avere edifici di spicco in stille ottocentesco, saranno stati i nuovi vecchi tram a fare un percorso diverso, oppure altro, ma San Francisco ha preso – semmai ve ne fosse stato bisogno – di nuovo il controllo sulla Bay Area, in un remake, del tutto grottesco, di un Fuga da Alcatraz dei tempi moderni. Ed il parallelo cinematografico sussisterebbe anche. Se è vero che i 49ers della NFL ed i Giants della MLB sono franchigie molto rispettabili, con picchi e cadute di popolarità, spesso al centro dell’attenzione non necessariamente per le loro vittorie, il grosso dello sport che contava nella Bay Area era focalizzato ad Oakland, al di là del ponte. Gli A’s del baseball sono stati una delle franchigie storiche per successi – del passato – ed i Golden State Warriors ne hanno preso il testimone nel basket recentemente, mentre i Raiders nella NFL ci sono sempre stati, con qualche zoppia di troppo magari, ma a testa alta.

COSTRUZIONE: SEMPRE E COMUNQUE

In un indistricabile groviglio di emozioni, Oakland e San Francisco si sono guardate di sottecchi dalla propria sponda sulla stessa acqua, facendo finta di ignorare ciò che l’altra metà pensava e viveva. Ma se hai faticato a Oakland, se hai messo su parecchi verdoni, l’obiettivo è andare dall’altra parte, dove la bella gente vive, dove si può anche evitare di avere le mani sporche di grasso alla sera. Il lento oscillare del pendolo delle emozioni vede ora questa fuga, lenta ed inesorabile, con i Golden State che hanno abbandonato la Oracle Arena per trasferirsi al Chase Center, i Raiders che si trasferiranno addirittura a Las Vegas, mentre gli A’s godono di un momento di celebrità forse più grazie al ricordo che ne ha dato Brad Pitt in Moneyball che non per altro. Il tutto in funzione, sempre e comunque, della costruzione, come se per Oakland i cantieri siano imprescindibilmente innestati nel dna dei suoi abitanti.

Riprendendo appunto il sopracitato film su Billie Bean e la sua squadra di baseball costruita al pc, era inequivocabile che il processo di crescita che aveva portato gli Athletics a giocarsi le finals contro gli Yankees era frutto di un grande lavoro preparatorio, di ricerca e selezione del talento, che poi andava testato, sgrezzato e messo alla prova. Ma poi si perde e quel talento viene ceduto altrove, come se – citando testualmente una battuta – Oakland fosse la squadra giovanile di quelle delle major. La scena in cui dal soffitto dello stadio crollano i maxi poster di Giambi, Damon ed Isringhausen è il frame perfetto per immaginare il passato ed il presente, anche perchè poi c’è Golden State, e lì ci si fa davvero male ad andare a spulciare gli annali.

Il FENOMENO WARRIORS

Va bene che un titolo lo avevano vinto nel passato remoto, con un leader come Barry che tirava i liberi e non solo con la tecnica dal basso verso l’alto, ma per tutti gli anni 90 e primi anni 2000 i Warriors sono stati una squadra eclettica e folle, come Don Nelson che l’allenava. Una sinfonia di run and gun estremo votata allo spettacolo. Non è un caso che alla domanda su quali siano state le squadre che ai playoff abbiano fatto l’upset 8 vs 1, il nome di Golden State spunta, per ben due volte, con Dallas (nella migliore annata forse della carriera di Nowitzki) e Seattle finiscono dalla parte sbagliata della storia. Una squadra fatta di talenti istrionici come Baron Davis e Al Harrington, di esplosività con Jason Richardson e Corey Maggette, ma anche di mestieranti un po’ spaesati, vedi l’immancabile Andris Biedrins eterno centro del mistero.

Poi c’era Monta Ellis, il primo che ha preso in mano la squadra, a cui la dirigenza Warriors ha affiancato Steph Curry. Mangiano entrambi il pallone, si pestano i piedi e non possono convivere, va presa una scelta e con sommo disgusto della comunità Ellis viene ceduto. Per anni il disprezzo dei tifosi è stato rappresentare dal venire alla Oracle Arena con la maglia del primordiale titolo, ma di fatto quella cessione è stato il primo passo della costruzione, degna dei cantieri navali del posto. Una squadra costruita al draft col tempo, con Thompson e Darymond Green, a cui si sono innestate ottimi pezzi da trade, come Iguodala, Durant e Cousins, sono arrivati i record, le vittorie e gli anelli con quel gioco folle che – a guardarlo bene – non è neanche troppo difficile da scindere da quello di Don Nelson. Eppure anche i Golden State se ne vanno, a San Francisco, al Chase Center, anche se – tra infortuni e cessioni – la prima stazione al di là del ponte è degna dell’ultimo posto. Tutti abbandonano Oakland, e se Steve Kerr pensa che in un’annata del genere, si può ben sperare per cosa Eric Paschall possa fare, allora, è ben chiaro che non c’è nostalgia di casa e che se anche è vero che lavorare sodo è bello, forse l’aver guadagnato un posto dall’altra parte della baia è pur sempre comodo…

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