Non so se ci avete giocato pure voi, ma quando ero piccola adoravo il gioco del domino. La domenica pomeriggio io e mio fratello maggiore ne costruivamo uno gigante che partiva dal corridoio più vicino all’ingresso per poi attraversare tutto quanto il salone. Ci volevano due ore buone a prepararlo, a volte pure tre; inavvertitamente qualcuno dei due, più spesso io, urtava un pezzo con la punta del piede o con il gomito e bisognava ricominciare da capo.
I pezzi sono tutti a terra adesso, non c’è una singola partita di basket disputata su tutta la superficie terrestre, forse solo qualche sfida amatoriale in un remoto campetto, o qualche animo solitario che in barba alle restrizioni prova tiri a canestro a pochi metri da casa.
Sport narratore di vita
Ho sempre pensato che lo sport raccontasse la parte migliore dell’uomo, le sue aspirazioni più pure, l’insoffocabile Icaro sotterrato dentro a ognuno di noi che qualcuno riporta a galla ispirando le moltitudini. Lo so, è una visione molto americana ed eroica dello sport professionistico, ma continuo ad aggrapparmici con tutta me stessa.
Pensate alla lega di baseball messa in piedi in America durante la seconda guerra mondiale, quando non c’erano sufficienti atleti maschi per tenere in vita la Major League e così si pensò di far giocare 9 intere stagioni alle donne; pensate alle partite di calcio disputate in luoghi segreti durante i bombardamenti di Sarajevo per tenere alto il morale di una città decimata dalla guerra etnica; pensate agli Harlem Renaissance, la prima squadra di basket interamente nera che scendeva in campo a New York per l’emancipazione razziale degli afroamericani, e lo stesso dicasi per gli Sphas, la squadra di soli ebrei, piccoletti e cazzuti che per anni sconfisse ogni avversario utilizzando al meglio il concetto di gruppo.
Lo sport, di squadra o meno, è pieno di questi esempi, e sono quelli che mi è sempre piaciuto di più raccontare. Quando dietro alla bellezza estetica di un singolo gesto atletico c’è un sogno più grande, una posta più alta, a vincere non è solo chi gioca e il gioco cessa di essere solamente un gioco.
Quando è scoppiata l’epidemia, dentro di me ho sperato che i vari campionati continuassero a disputarsi a porte chiuse, ad ispirare e rincuorare ognuno di noi dalla televisione. Ho collocato il ruolo degli sportivi professionisti così in alto che non ho accettato l’idea della sospensione. Se c’è qualcuno che non è autorizzato ad abbandonarci durante la pandemia del coronavirus, quel qualcuno sono le stelle sportive, quelle a cui settimana dopo settimana chiediamo coraggio, resilienza, attaccamento ai valori nazionali e fiducia sconfinata nella vittoria quando a noi mancano.
Domino effect
In fondo il campionato australiano di calcio si sta disputando a porte chiuse mentre vi scrivo, il bull-riding texano idem; uomini che sfidano tori di una tonnellata a mani nude non possono avere paura di un nemico così piccolo che neppure si vede.
Poi il tampone di Gobert è uscito positivo e il castello di carta è crollato: ad oggi sono almeno 7 i giocatori NBA positivi, senza contare qualche arbitro, qualche membro del personale NBA e il bambino che una settimana prima del lock-down aveva ricevuto un autografo da Gobert in persona.
Adam Silver si è trovato di fronte a un Rubicone sportivo e ha fatto la scelta giusta. I sei gradi di separazione che solitamente ci distanziano dall’altro sono ridotti a tre in caso di contagio e non agire velocemente avrebbe messo a rischio un’infinità di gente, compresa quella più fragile.
La sua decisione ha innescato un domino etico da parte di tutte le altre leghe che fino a quel momento tergiversavano sul da farsi, dall’NHL, alle Major e Minors League, fino all’NCAA, alle porte di un torneo marzolino che ogni anno raccoglie orde spensierate di giovani che poi tornano a casa prima del quadrimestre finale; su carta una tempesta batteriologica perfetta.
Ma come ho detto prima, i pezzi del domino adesso sono tutti per terra, le luci nei palazzetti sono tutte spente, si deve ripartire da capo.
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