L’annuncio della classe annuale di Hall of Famers rientra tra i piaceri sparsi garantiti dal week-end delle Final Four. Quest’anno la storia si è fatta molto più complicata: non solo il coronavirus ha geneticamente mutato, in meno di due settimane, la follia in tristezza marzolina, ma la morte di Kobe ci ha privato della gioia di sentirlo ancora una volta parlare di basket. Se la lettera consegnata ai tifosi dello Staples al suo ultimo giro di boa può essere di qualche indicazione, direi che ci siamo persi tanto.
Non c’è stata la solita cerimonia di presentazione con i riceventi uno accanto all’altro sul palco agghindato a festa, bensì un freddo videomessaggio pro-distanziamento sociale che ha reso il vuoto sul monitor ancora più grande.
L’ingiustizia di Kobe
Che tra tutti il destino abbia negato proprio a Kobe l’ingresso ufficiale nell’Arca della Gloria è una tale ingiustizia che non esistono canzoni per sublimarla, non esistono discorsi dei famigliari, di sua moglie o degli ex-compagni per mitigarla; Tim Duncan potrebbe tranquillamente salire sul podio, pronunciare la parola “grazie”, scendere dallo stesso, montare a cavallo e sparire dentro a un tramonto mentre sorride di spalle per non farsi vedere, Kobe no, Kobe avrebbe diviso le acque, come fanno quelli che sono arrivati così in alto da aver lasciato la scia.
È stato il miglior esterno di basket dell’era post-Jordan, scriviamolo una benedetta volta nero su bianco, numeri alla mano e coscienza ripulita da ogni preconcetto; il più completo tecnicamente, il più agonista, il più vincente – assieme a Tim Duncan – con 5 anelli NBA, 2 titoli MVP delle Finali (2009, 2010), uno della regular season (2008), il tutto venendo selezionato ben 11 volte nell’All-NBA First Team, al pari di Karl Malone, e 9 volte nell’All-Defensive First Team, al pari solo di Michael Jordan, Gary Payton e Kevin Garnett. E sempre con indosso la stessa maglia giallo-viola, un’armatura più che una divisa sportiva, ma esibita come un fiore all’occhiello, per 20 inconfutabili stagioni di ricerca della perfezione in cui ha lasciato sul campo ogni parte di sé, dalle ossa alle migliori intenzioni, come si fa in una lunga campagna di guerra.
Al culmine di carriera Kobe al pari del suo simulacro in maglia Ventitré non aveva difetti tecnici: sapeva segnare da dentro, da fuori, era un eccellente tiratore di liberi, un egregio rimbalzista nella sua posizione e un sottovalutato passatore, come capita spesso a tutti i grandi realizzatori. Sapeva annullare un avversario con la sua ineccepibile difesa a uomo, e coprire in aiuto all’occorrenza; il movimento di piedi e il controllo degli spicchi era da manuale.
Non era stato prescelto da qualcuno, Kobe si è scelto da solo. Giorno dopo giorno. Drill dopo drill. Filmato dopo filmato.
Indimenticabile
Nel libro di Mike Lupica “Wait till Next Year”, in cui la velenosa penna del New York Daily News raccontava un’intera stagione di sport seguita nella Grande Mela, c’è una frase che mi ha sempre fatto pensare a Kobe – anche se lui pensava più a Jordan quando la scriveva nel 1987.
I grandi atleti li riconosci perché sono i soli, in una serata qualunque, a combattere fino alla morte. Stanno evitando di essere dimenticati dalle generazioni future.
Di quelle serate molti si ricordano gli 81 punti contro i Raptors, la più appariscente delle passeggiate a braccetto con l’Eternità che si potesse organizzare, il secondo maggior numero di punti mai realizzati dopo il centello di Wilt, in un crescendo che neppure Bird o Bernard King erano riusciti a regalare nelle loro scorrazzate a quota 60. Io preferisco ricordare i 52 contro gli Utah Jazz a dicembre dello stesso anno, quanto di più vicino a una partita perfetta con 9 tiri a segno su 9 nel solo 3° quarto, nessun errore in lunetta e alcuni dei suoi migliori assist di carriera a gente come Smush Parker, Kwame Brown e Brian Cook. Dall’altra parte non la svogliata difesa dei canadesi, ma Andrei Kirilenko, uno dei migliori specialisti in materia in una squadra già tra le migliori dell’NBA nella propria metà campo. E quando anche il russo sembrò prendergli le misure, gli schiacciò in faccia come se fosse ancora il 1997 all’All Star Game di Cleveland e dovesse portare a casa il primo trofeo di una carriera percorsa mille volte ad occhi chiusi prima di farlo ad occhi ben aperti.