Vincitori indiscussi non possono che essere Andre Iguodala e Pat Riley. Il primo negli ultimi sette mesi non solo ha incassato 13,7 milioni ancora a contratto stando comodamente seduto sul divano di casa o indossando una polo Ralph-Lauren sui campi da golf, ma ha appena ottenuto esattamente ciò che voleva dopo 6 anni di glorificata carriera a San Francisco: ossia chiudere la stagione in una squadra che quatta quatta rischia di arrivare alle Finali di Conference sulla Costa Est, racimolando nel contempo altri 15-30 milioni di estensione contrattuale, a 36 anni suonati, in una città dove Will Smith va a fare bisboccia quando le notti a Hollywood gli sembrano troppo noiose.
Il secondo, sempre che ce ne fosse bisogno, ha dimostrato ancora una volta di essere il Gordon Gekko della Lega dei Sogni, soprattutto quando le cose non vanno secondo i piani. Il suo vero obbiettivo era Danilo Gallinari, ma trattare con un italiano – e con Sam Presti – non è mai facile, soprattutto per un americano. Saltato l’accordo attorno a motivi di estensione contrattuale, Pat con Iggy si è assicurato esperienza ai playoff, playmaking di buon senso e attitudine difensiva old-school che sembra calzare a pennello addosso agli Heat di Spoelstra, privi di posizioni e ruoli fissi sul campo, ma predicati attorno alla difesa a sciame sugli avversari e il moto perpetuo lontano dalla palla. Solomon Hill, tra l’altro, incluso nel pacchetto, non ha mai tirato così bene da tre in carriera oltre ad essere un buon difensore su multiple mattonelle del rettangolo, mentre Crowder, che al contrario è incappato quest’anno in una secca al tiro senza precedenti, rimane comunque un’ala cazzuta da gettare nel mucchio quando la difesa conterà di più da metà aprile in poi.
Quanto Iguodala avrà ancora da dare al basket è tutto da vedere, ma la mossa merita la levata di cappello, non fosse altro che per inchinarsi davanti all’unica chioma del vecchio millennio che può ancora permettersi l’impomatata copiosa perfino adesso che sfuma pericolosamente verso il bianco. Pat, in un anno scarso, ha voltato la frittata di Miami oltre ogni più rosea aspettativa, liberandosi dei contratti di Whiteside, James Johnson, Dion Waiters e Tyler Johnson, portando a bordo Jimmy Butler, Iggy-D e Crowder, oltre a pescare nel fango diamanti grezzi come Duncan Robinson, Nunn, Tyler Herro e Bam Adebayo.
Non dico che gli Heat di oggi siano messi meglio dei Celtics o dei Raptors, ma sul fatto che daranno filo da torcere ai playoffs potete scommetterci qualche soldo.
Dispiace per il Nostro Danilo, ma se terrà lo stesso passo da qui a maggio, chiudendo magari col botto ai playoffs, la sua estate da free-agent potrebbe trasformarsi in una rivincita personale.
Dispiace un filo di più vedere un veterano della vecchia scuola come Iguodala mostrare così poca etica professionale alle nuove leve e farla comunque più che franca. Non arrivo ad abbracciare la tesi giornalistica di Bill Simmons secondo cui i Grizzlies siano stati veri e propri ostaggi nelle mani di Dré, ma la scarsa professionalità di un MVP delle Finals lascia sempre scorie radioattive in giro, di qualsiasi sport si tratti e quale che siano gli esiti puramente numerici di tali “giocate sporche”.
La nuova Minnesota
E parlando di scarsa etica professionale non posso non includere tra i vincitori del mercato di febbraio anche i Minnesota Timberwolves. In una sola notte si sono ritrovati otto nuovi giocatori a roster (D’Angelo Russell, James Johnson, Jacob Evans, Omari Spellman, Jarred Vanderbilt, Evan Turner, Malik Beasley, Juancho Hernangomez), ma soprattutto sono passati dall’essere una pessima squadra colpevole di aver ceduto il miglior amico di Karl-Anthony Towns a Houston, leggi Robert Covington, a tutt’altra pessima squadra che ha però il merito di aver portato nelle Twin Cities un altro dei migliori amici di Karl-Anthony Towns, leggi D-Lo, l’infelice reggente ai Warriors, in contumacia Curry, finalmente rinvigorito dall’idea di essere atterrato in una città che lo vuole davvero.
Lungi dal sostenere che i T’Wolves da 15-e-35 di quest’anno possano puntare ai playoffs sull’onda dei tweet di ritrovato entusiasmo di KAT, ma al netto del feeling tutto da dimostrare sul campo tra i due amiconi, D’Angelo Russell è una pointguard capace di orchestrare pick-and-roll alla Vessicchio (perdonate il riferimento basso, ma Sanremo è sempre Sanremo) e di mettere a segno triple con all-staresca consistenza. Il fatto poi che i Timberwolves inizino più o meno a giocare in difesa in questa stagione dipende, assieme ad altre faccende tecniche, solo e innanzitutto dalla stessa voglia di KAT di iniziare a farlo.
Ciò detto, per quanto mi riguarda, la vittoria di Minnesota questo febbraio ruota attorno a ben altri numeri: vale a dire tre anni in meno sui 94,7 milioni dovuti a Wiggins fino a giovedì scorso, e che di colpo sono stati cancellati dal tetto salariale quando sembrava impresa pressoché impossibile. Il che conferma l’abitudine dei Warriors a strapagare le stelle o presunte tali in cui la sua dirigenza crede, l’abitudine ancestrale dei T’Wolves a costruire squadre perennemente votate alla gioventù e alla gioia di giocare e la fiducia inscalfibile che nutre coach Kerr in Draymond Green quando si tratta di cavar fuori potenziale dai grandi talenti, manco fosse la reincarnazione ad ovest di Jimmy Butler e del suo x-factor.
Io credo che Wiggins ci abbia fatto vedere esattamente chi è nelle scorse 450 partite e 16.000 minuti trascorsi sui parquet NBA, ma se c’è una cosa che Kerr sa fare alla lavagna è semplificare il gioco del basket nelle menti dei suoi giocatori. Good Luck.
E Houston?
A proposito di atti di fede: che dire della mossa dei soliti sciroccati tecnici a Houston?
I Rockets hanno appena ceduto il loro centro titolare, Clint Capela, più la 1° scelta a giugno, in cambio di Robert Covington – swingman specializzato in triple e difesa – una 2° scelta al draft del duemila-cazzo-e-24 e Bruno Caboclo, un brasiliano che due anni fa era a due anni di maturazione dall’essere pronto e che sei anni dopo ancora non lo è. Il tutto sulla base della fiducia cieca di Daryl Morey, GM dei Rockets, nel basket analitico, quello creato a tavolino sulla base dei numeri e delle statistiche cosiddette avanzate, senza considerare i fattori intangibili di uno sport interpretato da uomini e non da macchine. Emulo mai pago di tale John- Stats Guru -Hollinger che forse qualcuno di voi ricorda e con cui ho condiviso molte colazioni piacevoli nei miei anni americani, ma nessuna visione comune dello sport e di chi lo interpreta a livello professionistico.
I Rockets ad oggi sono lo yin dello yang philadelphiano: una squadra che non annovera in quintetto base alcun giocatore oltre i 6-piedi-e-6 e che è interamente predicata attorno a una small-ball caotica in campo aperto e al genio iconoclasta di Mike D’Antoni. Mike è troppo intelligente per non sapere che i suoi Rockets saranno stuprati a rimbalzo e nel verniciato da metà aprile in poi, ma è allo stesso tempo folle a sufficienza da voler provare a contenere i danni in difesa sulle seconde opportunità al tiro degli avversari, mischiando invece gli alambicchi tecnici delle sue due superstelle in attacco al fine di generare una tale esplosione offensiva che riveli al mondo, una volta diradato il fumo, l’unico vero Frankenstein vincente della storia della pallacanestro.
I Grizzlies gli hanno già inviato i loro più sentiti auguri.
Honorable mentions
Menzione d’onore ai Clippers che dopo aver portato in città Kawhi Leonard e Paul George sono riusciti a strappare ai Lakers un’altra comodità tecnico-tattica per la primavera inoltrata: Marcus Morris.
Non appena l’ex-Knicks si abituerà al ruolo del comprimario, dopo aver trascorso gli ultimi mesi da opzione numero uno alla Mecca, Doc Rivers si ritroverà per le mani un altro lungo grosso, fisico e veloce da gettare alle calcagne di LeBron, e che tra l’altro conosce il Prescelto pressoché a memoria dopo averlo marcato più di chiunque altro in passato. I Clippers non dispongono ancora di antidoti validi all’attacco di Anthony Davis, ma Morris pur non essendo una Ferrari è una di quelle Ford resistenti che da sempre sa come costruirsi un proprio tiro dal palleggio e ultimamente ha sciorinato affidabilità anche dalla lunga distanza.
Un ultimo saluto ai centri bistrattati dell’NBA, una lega che nel 2020 è disposta a pagare, per quella posizione, solo la crema della crema. Al di fuori di Embiid, Jokic o Gobert, o viceversa dei centri da pino funzionali agli equilibri tecnici delle retrovie, il ruolo del centro è quello più bistrattato al momento, contrattualmente e non. A Capela è stato gentilmente chiesto di levarsi dai maroni per consentire ai compagni di prendersi altre 325 triple a partita, mentre ad Andre Drummond è andata pure peggio.
L’ex centro dei Pistons non passerà alla storia come uno dei totem che ha contribuito all’evoluzione del gioco, ma ha dimostrato negli anni di essere un mostro di produttività, resistenza fisica ed etica lavorativa; ciò nonostante, dopo aver testato il disinteresse generale del mercato nei suoi riguardi, si è visto spedito anzitempo nel gulag della National Basketball League: i Cleveland Cavaliers, il biblico errore sul lago, il buco nero che come un tarlo rosicchia la mente e il talento di ogni atleta professionista che vi sverni.
È lui il giocatore NBA che ha pescato lo stecchino più corto di questo febbraio: esiliato in uno spogliatoio perfino peggiore di quello che ha appena lasciato e accanto alle stesse giovani guardie che hanno appena regalato a Kevin Love una sessione premio in una grande stanza bianca e imbottita.