La tragedia di domenica ha bucato il pallone da basket. L’ha sgonfiato ai nostri piedi senza che potessimo fare altro.
“Siamo devastati perché Kobe era il voler essere il migliore che c’è in tutti noi, anche se facciamo finta che non ci interessi”, ho scritto a una mia amica che lo adorava. Poi ho chiesto a Backdoor di non pubblicare il mio pezzo sui Sixers perché non aveva più senso. “Credo che Lui non avrebbe voluto che il gioco si fermasse”, è stata la risposta, e il più delle volte la vocina che ci sussurra le cose dentro ha ragione da vendere.
È arrivato il momento di parlare di Sixers. Ho una miriade di aneddoti legati a Philadelphia: come quella volta che tornavo con i fogli statistici al motel durante le Finali del 2001 e il tacco delle scarpe è sprofondato nell’asfalto per colpa dei 40 gradi all’ombra che c’erano per strada. Ho dovuto supplicare i passanti citando la formazione dei Sixers prima di ricevere aiuto. E dopo averla citata, il fratello afroamericano di turno si è deciso a prendermi in braccio solo dopo avergli mostrato il braccialetto in gomma che Allen Iverson mi aveva appena regalato nell’intervista. Addio memorabilia.
Come quando ho fermato Doctor J con lo sguardo e lui si è arrestato davanti alla mia postazione per parlare proprio con me, in una tribuna di giornalisti piena zeppa di firme importanti e in un’arena che aveva auto-generato un battito cardiaco tutto suo e un indimenticabile respiro concitato, una balena di Pinocchio che ti ingoiava solo per farti ritrovare Geppetto qualche metro più avanti.
Per non parlare dell’anno successivo, all’All Star Game, la neve che cadeva violenta, i pezzi sudati e consegnati in sala stampa e noi fuori da un albergo cinque stelle in maglietta, perché completamente in preda ai fumi della Giamaica. Un’italiana, un messicano di due metri, un francese sosia di Benigni e un olandese che sembrava Frankie Rijkard in t-shirt sotto la nevicata perfetta. Ci aveva fermato la polizia e avevo biascicato loro che cercavamo di raggiungere la festa di Alonzo Mourning. Quando avevamo mostrato i pass della stampa ci avevano scortato di persona; roba da raccontare ai nipotini. Ma quando saranno grandi però.
Tutto ciò che mi è successo a Philadelphia sembra tratto da una sceneggiatura americana, una a cui non può mancare il lieto fine. Date retta a me: ognuno ha una propria città del karma là fuori e consiglio vivamente a tutti di trovare la propria.
Anche i Sixers di quest’anno non scherzano. Non c’è serie televisiva su Netflix che vanti più colpi di scena di loro in soli 48 minuti. E non esiste vantaggio che i rosso-blu non siano capaci di rimangiarsi gettando squarci di ottimo basket alle ortiche.
I Sixers sono una delle squadre più talentuose della Lega, una minaccia alla porta di ogni contender e un cubo di Rubik difensivo data la lunghezza delle leve del suo quintetto titolare, eppure procedono lungo la traiettoria della regular season ad intermittenza. Sono a turno la maledizione di chi incontrano o la propria, a raffiche di 5 minuti per gara.
Ci sono possessi in cui la palla galleggia nella metà campo avversaria come se fosse piena di elio e non di automatismi tecnici; passa da Ben Simmons, dopo un fast-break abortito, a Joel Embiid a rimorchio da dietro, finisce nelle mani di Josh Richardson con il passaggio ravvicinato e viene rispedita a Tobias Harris sul lato opposto; da lì l’azione riparte da Horford che ha il compito genetico di risettare ogni attacco non andato a buon fine dal primo giorno in cui ha giocato a basket. Dall’apice dell’arco, nove volte su dieci, gli spicchi tornano a Joel Embiid nel mid-post senza che i primi 20 secondi sul cronometro abbiano portato a un granché. Poi, senza nessun preavviso decodificabile nel loro linguaggio del corpo, i Sixers spezzano la partita in due. Un battaglione composto da alcuni tra i più grossi, feroci e dedicati difensori del gioco che inghiottono le velleità avversarie dentro al proprio tifone e risputano fuori contropiedi inarrestabili. A tratti sembrano senza soluzione.
È il motivo per cui Philadelphia può rimediare una sconfitta inspiegabile dai Wizards, per poi inanellare vittorie consecutive contro Raptors, Nuggets e Celtics; il motivo per cui una buona settimana in casa Sixers è tutto ciò che li separa dai primi tre posti a Est e una trasferta lontano dalla Balena di Pinocchio li rispedisce indietro al sesto posto, svelando al mondo intero che tutte le falle offensive che ne hanno decretato l’uscita ai playoff dell’anno scorso sono ancora presenti nonostante gli onerosi rimaneggiamenti sul roster degli ultimi 12 mesi.
Sia chiaro, io ho un’immensa fiducia in Elton Brand, l’ho intervistato più volte e l’ho visto muoversi nelle notti americane quando era ancora un giocatore. Il ragazzo ha parecchio sale in zucca e due coglioni cubici nei pantaloni; ha anche una visione molto chiara del basket, dei delicati ingranaggi dietro ad ogni sistema di gioco, della chimica nello spogliatoio, delle dinamiche del mercato e di quelle ai playoff, dove avere a disposizione la propria soluzione ad un dato problema tattico fa la differenza così come il saperne porre agli avversari turno dopo turno. Brand mi ha sempre ricordato Gary Payton quando lo intervistavo, un agonista cazzuto, che capiva il gioco nelle sue sfumature più accese ma anche in quelle più tenui, che aveva le palle per rivendicare le proprie scelte dentro e fuori dal campo, e che sapeva osare. Quel Brand è rimasto lo stesso anche da dirigente sportivo. Non avrei mai lasciato uscire Jimmy Butler dallo spogliatoio di Phila – mai – l’avrei incatenato lì per i successivi 3 anni permettendo ai nervi scoperti della squadra di distendersi attorno alle sue sciarade offensive: un rinnegato che ha tutti quei punti nelle mani, e che ha costruito la propria carriera e vita attorno all’integrità della ribellione, vale molto di più delle sue statistiche quando finalmente trova casa, quando sente a pelle che i suoi nuovi compagni sono i “brothers in arms” che cerca da sempre. Ma fortunatamente per i Sixers è Brand il direttore sportivo e non io, e sono i suoi zebedei quelli che penzoleranno sull’incudine da metà maggio in poi.
Il bello di Brand è che la sua mente manageriale opera su frequenze diverse da quelle del resto della Lega e non c’è costo irrecuperabile, convinzione comune o opinione pubblica che potrebbero mettersi di mezzo quando intravede un esperimento di basket che meriti di essere tentato se non altro per la bellezza del gioco e delle sue complicazioni.
Ogni sera, i suoi Sixers godono di un vantaggio in centimetri in ogni posizione, e in quelle giornate in cui Embiid, Horford, Simmons, Richardson e Thybulle sono in stato di grazia, perfino il Dream Team del ‘92 avrebbe avuto il suo da fare a segnare contro quattro All-Defensive del genere. Certo, in attacco rimangono problemi di “spacing” quando Embiid e Simmons sono sul campo assieme, ma la scelta di Horford su Butler regalava troppe ed eleganti soluzioni tecniche ai problemi della squadra perché Brand ci rinunciasse.
Intanto stiamo parlando di un lungo che ha convertito il 38% dei suoi tiri da tre nelle ultime tre stagioni, il che per un quintetto in deficit genetico di fuoco perimetrale è una boccata d’aria, secondariamente Al è con tutta probabilità il giocatore più abile a giocare accanto ad Embiid nell’intera NBA, una sorta di normalizzatore del gioco alla Tim Duncan Light che riporta ordine e aggiustamenti sul rettangolo in dosi costanti di efficienza cestistica ripulita da ogni tipo di fronzolo. Oltre ad essere il suo back-up migliore quando serve farlo rifiatare in vista dei playoff. E contando che dal giorno del draft The Process ha disputato al massimo 64 partite regolari prima di infortunarsi in qualche modo, la possibilità di centellinarlo a piacere potrebbe essere l’arma migliore.
Non è tutto: se sei una contendente ad Est, l’estate la passi ad escogitare un modo credibile e funzionale per arrestare Giannis, e il buon vecchio Al, in un’economia difensiva di squadra, potrebbe essere il meglio equipaggiato a rallentarlo. 411 milioni di dollari investiti nei prossimi 5 anni su tre lunghi sono troppi? – dite voi… Forse, però lo stesso si diceva a Toronto l’anno scorso per lo scambio in corsa di Valanciunas per Marc Gasol. Il primo segnava di più e prendeva più rimbalzi, ma serviva un cambio di atteggiamento più che un cambio di statistiche. Horford è un facilitatore tecnico, un lettore del gioco formidabile e un totem anticazzeggio in spogliatoio, per tutto quanto il resto, dal talento puro, all’intimidazione, alla creatività, Philadelphia aveva già le mani piene dalla stagione scorsa. Un segno del suo impatto silenzioso potrebbe già leggersi dietro alla decisione di Joellone di chiudere con twitter e pensar solo a dimostrare sul campo.
Ma torniamo sulla terra, per un attimo, invece di distrarci attorno alle potenzialità di un quintetto senza precedenti tecnici e tattici: l’attacco dei Sixers fino ad oggi è stato mediocre, un canto delle sirene lontano rispetto all’ottavo posto di efficienza offensiva dell’anno scorso; Embiid è di nuovo in infermeria e i suoi dissapori con Simmons sono sotto la luce del sole. Ben è il capro espiatorio preferito in città; il suo rifiuto ancestrale a tirare da tre sta dando vita a una letteratura digitale pari solo a quella nata e cavalcata dagli allenatori di mezza America ai tempi dell’Hack-a-Shaq. Io credo che Simmons, al suo meglio, sia una Damasco di 6-piedi-e-10, una rivelazione. Non c’è guardia più grossa, agile e forte di lui nella lega, e quell’apertura alare di due metri e 10 fa notte in difesa; è anche un ottimo passatore e la sua ambizione di finire forte a canestro nel traffico mi commuove come se fosse ancora il 2001; però le speranze di Phila e gli zebedei di Brand sono appesi al suo tiro in sospensione. Coach Brett Brown gli ha imposto in mondo visione almeno una tripla a partita, dato che a quanto dicono i meglio informati l’Aussie ne inanella in tranquillità durante gli allenamenti; Joel l’ha appeso al muro in spogliatoio chiedendogli di prendere quei dannati tiri da fuori indipendentemente dal fatto che entrino o meno…
Io so che Simmons quest’anno ha difeso come nessun altro su Harden, Siakam, Doncic, Aaron Gordon, Bradley Beal e Brandon Ingram, e quando in campo scendono point-guard moscerino alla Kemba Walker, i Sixers possono affidare il compito a Josh Richardson, mentre i centri meritevoli di chiamata a febbraio sono competenza esclusiva di Joel e Horford. Io so che Mister Process è un giocatore da mitologia, e che basta guardarlo una volta sola in attacco o mentre spazza via i tiri avversari come se fosse King Kong attaccato all’Empire State Building, per capire di che razza di Dieu Savant stiamo parlando. È come se ogni veterano della lega, che ha fatto il bello e il cattivo tempo grazie ai propri superpoteri, capisse che è finita la cuccagna; non c’è attaccante, o All-Star, o franchise player che non tremi davanti a lui, che non faccia qualcosa di stupido o perda il ritmo al tiro nell’arco dei quattro quarti, tutti ipnotizzati da un gigante dall’intuito cestistico così ancestrale da aver imparato a giocare nell’NBA su youtube.
Che il karma di Phila sia con lui ragazzi, per il bene del basket e dei coglioni cubici di Brand.