Siamo a otto settimane dalla fine della regular season 2019/2020.
Non è stata una gran stagione finora, diciamocelo. Prima l’infortunio a Steph Curry, poi la seconda ondata di malanni, e poi quella vocina – “load management” – che le squadre NBA giocano ormai con la stessa leggerezza con cui le zie calano i jolly al partitone di scala quaranta della domenica. Un conto è che Kristaps Porzingis parta piano dopo un infortunio al crociato anteriore – le ginocchia sono organi diversi dal cuore, hanno limiti ben precisi – ma per una vecchiascuolista come me, cresciuta a vodka, Jordan e Iverson, assistere a intere metà di gara in cui Kawhi Leonard viene tenuto sul pino nelle partite del back-to-back mi sa molto di fregatura ai danni di chi acquista i biglietti per vedere questa o quell’altra superstella. Se Whoopi Goldberg potesse rievocare lo spirto di Wilt Chamberlain, probabilmente la sua lunga anima nera ci riderebbe in faccia. The Stilt giocò più di 48 minuti di media a partita in un’era in cui non c’erano i back-to-back, bensì i back-to-back-to-back, e da una città all’altra ci si spostava con i voli commerciali. Chi lo ha chiesto a MJ invece si è sentito rispondere che il load management non funziona, e la prova vivente è tale Reggie Miller.
Poi sono arrivate le morti di due leggende di questo sport: prima quella di David Stern, l’Einstein dietro alla relatività del basket americano, poco meno di un mese fa quella di Yoda-Kobe, prima che qualcuno avesse ufficialmente raccolto il suo testimone.
La vita negli spogliatoi…dei Jazz
Per chi come me ha visitato gli spogliatoi in questa stagione dell’anno, le otto settimane rimanenti dopo la pausa dell’All Star Game sono una primavera della fede cestistica: tutti sono convinti che le cose finalmente cliccheranno, che gli automatismi entreranno in campo e che i muscoli ricorderanno tutto quanto imparato da ottobre. È una stagione d’oro per essere un giocatore NBA, soprattutto se la tua squadra sta inseguendo un ultimo posto ai playoff o una posizione favorevole sul tabellone degli accoppiamenti al 1° turno. Gli spogliatoi profumano di trincea prima dell’assalto, gli occhi si cercano tra i microfoni dei giornalisti, c’è più silenzio ma sa di quiete prima della tempesta.
Non so, ma mi aspetto un finale di stagione da libri quest’anno, mi aspetto un si-va-a-Berlino dopo il tragico tuffo dal tetto di Pessotto. Se questa leva cestistica ha qualcosa da dimostrare dopo la morte di Kobe, il momento è adesso.
Il sentiero che porta in cima alla Western Conference per gli Utah Jazz è decisamente impervio, ma Mike Conley sembra assomigliare sempre di più al giocatore che era prima dell’infortuno al tendine del ginocchio. Quattro partite sono poche per giudicare, ma l’ex Grizzlie sta vivendo la miglior striscia degli ultimi due mesi con 20,3 punti di media a sera oltre a 5 rimbalzi e 5 assist in saccoccia. Conley ha un talento immenso, e non lo dico io, me l’ha detto Durant due lustri fa; la sua presenza in quintetto ha troppo senso in una squadra che gioca a basket così bene come i Jazz, oltre al fatto che manleva le mani già piene di Donovan Mitchell da incombenze alla regia. Spida quest’anno ha fatto balzi in avanti quanto a capacità di leggere le difese avversarie, ma da qui in avanti si dovrà aspettare la morte nera se vuole trascinare i Jazz oltre l’ostacolo. I Clippers gli getteranno alle calcagne Pat Beverley, Paul George e Leonard; i Lakers Danny Green, Avery Bardley e Kentavious Caldwell-Pope. No, Mitchell non è ancora pronto, non ha ancora perforato la stratosfera di Harden, ma finalmente potrà contare su un backcourt più cazzuto e più offensivo quando la boccia peserà tonnellate. Mi aspetto qualche tripla decisiva presa dal superbo Bogdanovic di quest’anno, mi aspetto un cambio di marcia di Conley quando odorerà l’aria da playoff, oltre alla solita sciarada sotto ai tabelloni del più forte protettore di ferri della lega, Rudy-Stifle Tower-Gobert.
La fede dei Blazers
I Blazers dal canto loro avranno bisogno di otto settimane di fede assoluta se vorranno ripetere la fantastica cavalcata dell’anno scorso. Sono quattro vittorie dietro ai Grizzlies per l’ultimo posto ai playoff, per cui la modalità ogni-partita-conta è già stata attivata da giovedì scorso. In più dovranno fare i conti con l’inguine capriccioso di Lillard. Ed è a questo punto che entra in gioco CJ McCollum, che nei prossimi giorni avrà la palla nelle mani più a lungo e sarà chiamato a metterla nel secchio ad alta frequenza. Nessuno corre di più di Dame nella lega – Trae Young escluso – e nessuno interpreta i pick-and-roll meglio di Portland con Lillard sul campo; ora la decisione spetta a coach Stotts: o chiederà a McCollum di giocare come il suo Numero Zero, oppure chiederà ai suoi di far girare di più gli spicchi, il che in una squadra di passatori ordinari è comunque una scommessa. Portland godrà di un calendario migliore di Memphis, oltre ad affrontare gli Orsi ancora due volte in casa propria, ma il remake del 2019 resta attaccato ai 4° quarti, dodici minuti dodici che se non fossero esistiti l’anno scorso forse avrebbero delineato una finale diversa.
E i Nuggets?
E arriviamo alla mia personale stagione di fede assoluta: le Finali di Conference sfocate all’orizzonte incerto dei miei Nuggets. Denver, mentre vi scrivo, è seconda ad Ovest nonostante non si sia ancora vista una sua versione perfettamente sana, e quando in squadra erano più o meno tutti fisicamente recuperati, era Jokic a non essere ancora entrato in forma. Gli acciacchi che mi preoccupano di più sono quelli che hanno già fatto saltare 20 partite a Paul Millsap, vero fulcro difensivo della squadra, la cosa che mi rende fiduciosa è il fatto che un gruppo che fa dei meccanismi oleati e della continuità la propria forza, abbia trasformato questa prima parte di stagione rattoppata nel proprio calco cestistico che ognuno a roster può e sa indossare all’occorrenza. I Nuggets sono basket olistico, la famosa mano che chiusa diventa forte come un pugno. Sono tra i migliori nel crunch time, affidabili fuori casa e particolarmente ispirati contro le più forti – sono tra le uniche tre squadre ad aver battuto i Bucks a casa loro quest’anno, e per altro senza Murray, Harris, Millsap, o Mason Plumlee. Si sono anche fatti rimontare da alcune tra le peggiori squadre della lega, quando complicano l’attacco al posto di semplificarlo e lasciano sfumare inspiegabilmente l’inerzia affidandosi a Jokic, Murray e a quella manna di Will Barton quando ormai è troppo tardi. Per coronare i mei sogni bagnati dovranno tirare meglio da tre, stabilizzare la temperatura della loro point-guard canadese, che passa dal fuoco al gelo in pochi minuti, muovere palla da manuale e lasciare che coach Malone cucia le rotazioni a pennello. Il resto è nelle mani del Joker, nella sua capacità di schiacciare gli avversari nel post, di generare basket sotto pressione dal passaggio e di sguazzare nei minuti finali di gioco. Le losangeline sono proibitive per una squadra che non ha difensori eccelsi in ala piccola, ma vivere sul filo del rasoio per sei mesi è il miglior allenamento alla guerra.
Il cambio di marcia di Shai
La più grande sorpresa di questi primi due terzi di stagione restano comunque i Thunder del nostro Gallinari, in parte per l’inattesa risurrezione di Chris Paul in quel Sinai che è l’Oklahoma, in parte per la crescita esponenziale del secondo anno Shai Gilgeous-Alexander, che ha via via assunto i tratti somatici dell’All Star nelle sue prime 55 partite in casacca OKC. Shai faceva parte della polizza di assicurazione firmata dai Clippers pur di poter godere dei servigi di Paul George in quel di Hollywood. Il ragazzo, sottovalutato da molti al draft del 2018, nell’Oklahoma ha praticamente raddoppiato la sua produzione di Los Angeles con una media di 19.5 punti, 6.1 rimbalzi e 3.2 assist a partita. Non credo che i Thunder possano acciuffare in extremis una delle prime quattro piazze ad ovest, ma dopo aver incarnato in stagione una delle migliori difese della Western, sembrano aver appena intercettato la giusta onda offensiva, cavalcando sia la fiducia di Gilgeous-Alexader che il sesto uomo dell’anno Dennis Schroder. Non so come la pensiate voi, ma io credo che ogni agenzia di collocamento dovrebbe avere il proprio Calipari. Il mondo sarebbe un posto migliore. Ogni anno porta a Lexington i liceali che l’hanno più impressionato – anche quelli snobbati dagli scout che contano – ogni anno gli servono 12 mesi scarsi di apprendistato per sfornare giocatori pronti per il grande salto. E Shai non ha fatto differenza. Non era velocissimo, non era esplosivo in penetrazione e non eruttava tiri come alcuni vulcani del prep-basketball, ma ciò che ha notato coach Cal era la sua abilità a cambiare direzione su una moneta, le braccia lunghe che potevano difendere più posizioni e la volontà di assorbire botte sotto a canestro. Il resto si scriverà ad aprile.
La mossa di Brett Brown
A proposito di fede assoluta prima dei playoffs: Brett Brown l’ha veramente fatto, e ha scelto la partita della verità per muovere il suo scacco matto. Proprio prima della pausa dell’All Star Game, contro i Clippers, ha messo mano al quintetto titolare sedendo Al Horford, pedina mancante pagata quasi 100 milioni di dollari da Elton Brand, e preferendogli, accanto a Embiid e Simmons, il tiratore scelto Furkan Korkmaz. Hanno vinto i Sixers, 110-a-103, e forse si è trovata la quadra. I tre assieme – Joel, Ben e Big Al – semplicemente non si incastrano bene sul rettangolo, mentre Horford dal pino dà nerbo ed equilibrio alla seconda unità.
La mossa non è stata delle più facili da chiamare dato che Horford non usciva dal pino da gara 4 dei playoff di primo turno del 2012, e non è mai uscito dal pino nelle ultime dodici stagione regolari; eppure la supremazia di Embiid nel verniciato e la peculiare indole cestistica di Simmons che lo spinge a giocare più da centro che da point-guard, obbligava Horford a switchare in ala piccola, incancrenendo le sue medie da tre, i suoi viaggi in lunetta e la spaziatura sul parquet. Le Tre Torri dei Sixers avevano le facce di chi è pronto a citarti in giudizio ma ne è momentaneamente impossibilitato perché troppo impegnato a sopravvivere a plurimi attacchi cardiaci nel corso dei 48 regolari.
Il dado è tratto, entrambi Embiid e Horford producono di più e meglio quando l’altro è seduto in panchina, entrambi hanno ritrovato il proprio ritmo di gara. Contro i Clippers Joel in soli 28 minuti ha riagguantato il polso della sua squadra, dei suoi tifosi e del suo basket interiore fatto di jazz sotto ai ferri, di intimidazione tecnica e corporale, di giocate fuori dagli schemi, ma dentro alla matematica dei fuoriclasse, Allen Iverson style. Tim Duncan Light, specularmente, è tornato alla sbarra a nutrirsi dei suoi efficienti pick-and-pop come una disciplinata ballerina, consentendo a tutti di tirare il fiato e di acciuffare la vittoria sui pretendenti al trono.
Resta da vedere come Brown riempirà il quinto posto liberatosi in quintetto per il resto della stagione, se opterà per il catch-and-shoot di Korkmaz, lasciando però scoperti gli stessi vuoti difensivi che generava JJ Redick nell’identico ruolo, o se oserà con il rookie sensazione Matisse Thybulle, che spezza decisamente le partite in due in difesa, ma che è troppo grezzo da dietro l’arco per non mitigare gli effetti positivi appena ottenuti in attacco con lo smantellamento delle Tre Torri.
Quattro ultimi desideri della sottoscritta per questa seconda parte di stagione:
- che un recuperato Oladipo trascini i Pacers a un primo infuocato turno di playoff contro Celtics, Raptors o Heat…
- che Zion vinca il Rookie of the Year…
- che i Bucks perdano il viaggio in Finale per colpa di una coppia di liberi sbagliata da Giannis…
- che Durant stupisca tutti come MJ nel 1986 tornando per il 1° turno di playoff nonostante il veto dei Nets…
Se gli uomini straordinari non fossero capaci di coraggio sovraumano, la Cappella Sistina sarebbe stata dipinta sul pavimento.