Forse gli dei del basket ci stanno lanciando un messaggio. Ogni tanto le divinità sportive lo fanno.
“Se a gestire i corpaccioni NBA saranno esclusivamente le sfide interiori e tecnico/tattiche dei coach, gli infortuni aumenteranno…”. Parola di lupetto.
Oppure è solo l’ennesima coincidenza. A voi la versione che soddisfa di più.
Di certo il fatto che la stagione NBA sia partita un po’ prima del solito, a me pare giustificazione debole.
Ad Ovest si vocifera che Steph Curry, infortunatosi alla mano sinistra in un 3° quarto di un mercoledì qualsiasi contro i Phoenix Suns, potrebbe saltare tutta la stagione, il che getta il solito manto di mistero su tutti quanti gli infortuni che accadono in casa Warriors, oltre a rendere le sorti del Castello da 500 milioni di dollari che i Golden State hanno costruito sulla baia di San Francisco ancora più incerte di quelle di Downton Abbey.
Steve Kerr dovrà ripartire da zero, anche perché Draymond Green ha tutta l’aria di aver voglia di farsi espellere per frustrazione da qui fino alla pausa dell’All Star Game.
Ad Est, delle prime 11 squadre in classifica, ben 9 stanno stringendo i denti per via di infortuni a un loro uomo chiave; il più triste da registrare quello alla mano di Gordon Hayward lo scorso week-end.
Proprio quando Super Nerd sembrava essere tornato nella forma smagliante sfoggiata ai Jazz, si è rotto la mano che stava tirando con il 56% dal campo e col quasi 45% da tre, concedendosi la bellezza di 4 triple a partita e mid-jumper da ogni mattonella come se fosse ancora il 2017.
Di solito gli autunni NBA sono quella stagione dell’anno in cui le squadre vivacchiano in attesa che i muscoli raggiungano la temperatura ideale e i meccanismi scivolino come il velluto blu sulla schiena di Isabella Rossellini; questo autunno vale invece la regola di chi è più sano sopravvive, anche se non potrà essere così per sempre.
La lavagna di Stevens
I Celtics, per il momento, sembrano i meglio equipaggiati a resistere, un po’ per la mentalità da cane segugio che Brad Stevens instilla in tutte le sue squadre, un po’ perché sono poco decifrabili in attacco: ci sono sere in cui Kemba si lascia inseguire come un topo con i gatti, sfiancando gli avversari, e altre sere in cui Tatum o Jaylen Brown alzano l’asticella della loro crescita personale a piacere, come faceva Bubka in gara per rimediare la medaglia d’oro; metronoma indiscutibile, nel 4° quarto, la lavagna di Stevens, che chiama azione dopo azione evitando che maturino padroni in spogliatoio, ma piuttosto soldati pronti ad eseguire schemi sul finale di gara.
Chiaro è che quando Hayward tornerà in campo e l’annata punterà verso la primavera, Boston avrà bisogno di eleggere ufficialmente un generale tra Kemba e Super Nerd, perché le partite chiave non si giocheranno più alla Mecca contro i derelitti Knicks o a Cleveland contro Dellavedova e quel che resta di Kevin Love, ma in ben altre arene.
Del resto il bello dei Celtics alla vigilia del 2020 è proprio questo: una squadra che non infila i talenti nel microonde sperando che siano pronti più in fretta, ma che tira tacche sul muro solo da aprile in poi e che nel frattempo crede nel proprio sistema.
Il legittimo prime di Davis
L’altra squadra che a Ovest sembra volersela prendere con calma, e che come i Celtics sta dormendo sonni tranquilli sugli allori della vittoria, sono i Lakers di Anthony Davis. Ebbene sì.
A settembre LeBron ha chiesto che A.D. diventasse il punto focale dell’attacco gialloviola, e ciò che LeBron chiede, LeBron ottiene, così va il mondo.
Ebbene, a questo punto dell’inverno c’è un solo giocatore NBA che rientra nella top5 delle colonnine statistiche sia alla voce punti a partita che alla voce rimbalzi: trattasi, guarda caso, di UniBrow, anche se il dato più interessante sui fogli di fine gara è il numero di palloni che il Tre tocca in attacco, guidando a mani basse il roster al completo dei Lakers. Solo altri due precedenti compagni di LeBron sono riusciti nell’impresa fino ad ora: il primo è Dwayne Wade, nella loro prima stagione assieme a Miami, l’altro e Kyrie Irving nell’ultima stagione assieme al Prescelto in quel di Cleveland, il che da un alto racconta di più sui rovesci delle medaglie a spicchi di quanto potrebbero fare duemila articoli su LeBron, e allo stesso tempo testimonia la garbatezza tecnico/offensiva di un lungo come Davis che fino ad oggi è stato relegato ad un basket fin troppo efficiente e ripetitivo sotto ai canestri.
Portare alla luce tale totem cestistico sarà più o meno come dissotterrare un intero Moai dell’isola di Pasqua, ma ciò non toglie che i Lakers sembrino intenzionati a farlo; il che, signori, fa propendere per un gran basket ad altezza di aprile, per altrettanti grandiosi derby losangelini a venire e per una dose di pazienza fuori dalla norma.
Un conto è lasciar carta bianca ad Harden e permettergli di comporre assoli in attacco fatti di 20 nuove finte, esitazioni, o tiri con o senza calcetto, ben altro conto è orchestrare in corsa il finale di carriera di uno dei più grandi del gioco e tra i migliori passatori nel post di sempre, mentre Davis reclama il proprio diritto, strameritato negli anni, di toccare il proprio apice tecnico e di gloria.
Se un dio del basket esiste – e ancora conta – ci devono essere modi migliori di sfruttare James e Davis sullo stesso rettangolo rispetto al pick-and-roll sistematico, e questo inizio di stagione lascia ben sperare.
Intanto mentre i Blazers mi hanno dato ascolto, offrendo un contratto non garantito di un anno a Melo, Adam Silver mi ha fatto venire un’inspiegabile voglia di anni 80.
Questione di centimetri
Come puoi introdurre una nuova regola che obbliga i giocatori NBA a rivelare la loro vera statura?
Come puoi incaponirti affinché Gordon Hayward ammetta di essere 6-piedi-e-7 al posto di 6-piedi-e-8, o umiliare il campione NBA J. J. Barea imponendogli di cancellare i 6 piedi secchi sulla sua carta d’identità, obbligandolo a scrivere quell’1-PUNTO-78 che tutti sappiamo benissimo misura dopo averlo visto giocare in Finale?
E non lo dico perché anch’io baro sistematicamente su ogni mio documento più o meno dal dopo diploma in poi, mi impunto perché dobbiamo smetterla di succhiare via poesia agli sport, di analizzare i giocatori come se fossero macchine che imballano corn-flakes, tanto poi una volta sul campo LeBron è e sarà sempre più basso di Jordan perfino se il Ventitré giocasse con un solo paio di calzettoni indosso e viceversa Antetokounmpo misurerà al prossimo aprile ben cinque centimetri in più dell’anno scorso benché abbia ampiamente oltrepassato l’età dello sviluppo.
Ritorno al passato
Per fortuna quando ho bisogno di una ventata di “passato”, i miei fratelli africani non deludono mai. Lunga carriera a Joel Embiid che il 30 ottobre scorso ha riportato indietro i miei orologi di casa al 1988, quando Kareem, infastidito dalla gomitata sporca della prima scelta assoluta di quell’anno, tale Kent Benson, al suo addome, ha aspettato che scoccasse il secondo minuto di carriera professionistica per il bamboccio prima di invertirgli la masticazione con un solo cazzotto assestato a dovere.
Joel, ugualmente innervosito dalle fusa al collo di Karl-Anthony Towns, ha provato a sferrare un jab da pugile all’avversario prima che li separassero e lui rimediasse il boato a favore del suo pubblico da un lato del campo e il dito medio della mamma di KAT dall’altro. A volte lo sport è più semplice di quanto ci dicano gli analisti, a volte è una questione di “not in my house”, altrimenti tanto varrebbe giocare senza maglie e su campi neutrali e stare a vedere chi vince.