Partiamo dall’orgoglio, degli altri, e chiudiamo con i miei pregiudizi.
Non c’è nessuno in America che stia dormendo sonni più appagati di John Calipari. Jamal Murray, Tyler Herro e Bam Adebayo, tre sue creature a Kentucky, sono tra i protagonisti indiscussi dei playoff NBA nella Bolla. Fossi nei panni di coach Cal, sarei un metro e 88 di orgoglio e petto in fuori dopo che il resto degli addetti ai lavori si è rifiutato di scommettere un singolo penny sul futuro di questi tre giocatori al Piano di Sopra.
Fossi Pat Riley, invece, girerei per South Beach con indosso una t-shirt che recita: “Non mi interessa tankare, load-maneggiare o ricostruire”, perché – sottointeso – sono decisamente più scaltro di voi.
Semplicemente Pat Riley
Riley è la forma più adattabile di pensiero cestistico che circoli negli Stati Uniti: ha allenato la pallacanestro con quoziente di finezza più elevato ai Lakers, per poi assoldare la squadra di peggiori cagnacci sulla costa opposta, a New York, sfruttando l’humus del basket duro per eccellenza che si respira nella Grande Mela. E poi, all’arrivo dei primi capelli bianchi sotto al sole caldo della Florida, pur non essendo tra gli estimatori ufficiali di Shaq, ha comunque capito che sarebbe stato il compagno di merende ideale per Wade. E la storia gli ha dato ragione. Dopo aver soffiato vita dentro al primo Big Three costruito a tavolino – perché i tempi erano diversi e anche le stelle nascevano diverse – non ha deciso di tankare di proposito quando Lebron ha rispostato i propri talenti sul lago Erie, si è fidato ancora una volta delle sue vibrisse da Yoda e non appena ha saputo che Jimmy Butler si era deteriorato a materiale radioattivo per le altre 29 franchigie, ha sollevato la cornetta e gli ha fatto il discorsetto.
Secondo me Tu sei un leader nato, e secondo me Tu qui a Miami puoi diventare un campione.
Certo, non un campione alla Tatum – che per quanto mi riguarda è la cosa più vicina alla seconda venuta di Grant Hill sui parquet NBA – ma un condottiero vecchia scuola con l’etica lavorativa di Kobe e la determinazione di vincere, costi quel che costi, in campo così come in spogliatoio, che abbiamo visto oltremodo narrata nell’Ultima Danza di Jordan. Tra dichiarazioni altisonanti di Chris Paul, “sono nato per momenti come questo”, all’indomani di una singola partita vittoriosa ai playoffs, gli sfoghi di Paul George o LeBron sullo stress patito nella Bolla e le lamentele di James Harden sulla mancanza di supporting cast adeguato, l’incedere da pantera di Butler in campo, il suo gioco dominante da un punto di vista più piscologico che tecnico-atletico, le sue giocate chiave nei momenti chiave, che non si leggono sulle statistiche di Daryl Morey ma sui punteggi finali e nelle nuove personalità mostrate dai vari Adebayo, Herro e Duncan Robinson, per non parlare delle sue interviste nei dopo gara, l’intero pacchetto Butler è una ventata di aria pulita di cui ad Orlando, dopo l’ammutinamento orchestrato da George Hill, tutti avevano un gran bisogno.
Per inciso, Riley, che conosce bene l’importanza della difesa nel basket da playoff ma anche la recente fobia NBA per il tiro da tre e per le spaziature, ha chiamato coach Spo la notte prima del draft 2018 e gli ha detto di fare uno squillo a quel ragazzotto con la faccia da New England e le mani educate per dargli una chance.
Gli altri pezzi del puzzle si sono incastonati uno dopo l’altro: Bam, da lungagnone che al college si limitava a inchiodare bimani in amministrazione controllata per coach Cal, è diventato una fonte inesauribile di improvvisazione offensiva per gli Heat e più recentemente, in difesa, l’Uomo che ha arrestato l’inarrestabile ascesa di Tatum verso il gotha del basket. Herro, sotto l’ala di Jimmy, non solo ha imparato a bere Sassicaia, ma anche a muoversi senza palla in maniera reminiscente di tale Ray Allen, mentre Dragic sta semplicemente disputando dei playoffs sensazionali. Il fatto di non avere più sulle proprie spalle il peso dell’opzione numero uno, l’ha reso molto più produttivo e molto più efficiente, le difese devono concentrarsi su Butler e sull’energia atomica liberata da Bam al centro, e questo gli ha regalato spazio in più per operare in tranquillità.
Il ritorno del facilitatore Gordon Hayward per i Celtics potrebbe cambiare le carte in tavola, anche se la serie si preannuncia un duello all’ultimo sangue di gara7 tra il gioco all-around-e-in-your-face di Butler e il basket metronomo e allo stesso tempo mozartesco di Tatum, il secondo più giovane di sempre a siglare almeno 25 punti, almeno 10 rimbalzi e almeno 5 assist in una gara 7, Kobe il più giovane in assoluto.