NBA: “Stecchini corti” di Chiara Zanini

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Si dice sempre che il primo amore non si scorda mai. Che il primo e l’ultimo sono gli unici che contano veramente. Ecco, una cosa che mi manca del basket NBA quando non lo seguo, quando non lo guardo, quando non ne scrivo, a parte il basket NBA in toto, è l’esatto opposto: sono i colpi di fulmini, quelli che ti squarciano il cuore, nel bel mezzo di un secondo quarto di una partita regolare, che neppure volevi vedere.
Alcune persone si ricordano dov’erano quando sono crollate le Torri Gemelle, quando è nato il primo figlio, quando hanno conosciuto moglie o marito, io sono stata confezionata con un DNA diverso: io mi ricordo dov’ero la prima volta che ho visto Jalen Rose giocare, la prima volta che ho pianto per Shawn Kemp, che ho riso per uno yo-yo pass di Gilbert Arenas, o su quale seggiola sono saltata per Porzingis, Paul George, Ricky Rubio, Arvydas Sabonis, Stackhouse o Rajon Rondo.

E ogni stagione porta con sé nuovi colpi di fulmine, nuove cotte a spicchi più o meno giustificabili, ma che orientano la mia rivoluzione attorno al pianeta Basket Americano per almeno otto mesi.
Ti alzi per guardare esattamente quel giocatore, per riprovare la stessa emozione davanti a un dato guizzo tecnico, o tattico, o per quella coppia di palle d’acciaio alla Tony Montana che ti hanno fatto venir voglia di essere migliore di quanto eri il giorno prima.
Non conta tanto il risultato finale, anche se conta fottutamente – è chiaro – ma conta di più che “Lui” non ti tradisca, che a un certo punto vada oltre il suo gioco e attenti alla luna, e che mentre lo fa si porti te e la sua squadra appresso.
Tutto questo per dirvi che il mio 2020 NBA equivale ad aver pescato allo stesso tempo sia lo stecchino corto che quello lungo; corto perché Kevin Durant non giocherà una singola partita con una maglia Nets indosso prima del prossimo novembre, e lungo perché ci sarà il mio nuovo Lui: The Joker, Nikola Jokić, il colpo di fulmine dei miei colpi di fulmine, una tacca davanti a quel califfo di Joel Embiid e i suoi nuovi Sixers e del mio giocatore di basket preferito ancora in attività, Paul-se il basket è la gallina io sono l’uovo-George.

La prima volta che ho visto Kevin Durant scrivevo ancora professionalmente di basket, ero una giornalista a tutti gli effetti, non solo dentro alle scatole dei nostri cellulari. Novembre 2007, seconda partita tra i pro, Kenny Smith che lo ha messo in discussione alla tv dicendo che è troppo magro e anomalo per essere un giocatore franchigia. Kevin ne mette 27 in ogni modo non consentito a un 6-piedi-e-11 da mamma natura, e indipendentemente dai match-up con Raja Bell, Amar’e Stoudemire o Barbosa. Da tre, dal mid-post, schiacciando, penetrando, portando avanti palla come un regista. Dicono che è timido, troppo timido, ma poi lo vedo intervistato da Charles Barkley è gli dice che è diventato “un ciccione”. All’All Star Game di New Orleans lo osservo da vicino; in campo è immarcabile, al tavolo-interviste sembra un “mama’s boy”, uno di quei ragazzi figli di madre single e nera di cui l’America è piena: timorato di Dio, intelligente e con qualche lampo negli occhi che ti ricorda Jules – alias Samuel L. Jackson in Pulp Fiction. Poi arrivano i Thunder, arrivano Russ e James Harden, Serge Ibaka nel 2009; sono i Beatles del basket, dannatamente talentuosi, dannatamente atletici, dannatamente giovani e nonchalanti. Non puoi non tifare per loro.

Una volta parlavo con Jalen Rose e gli ho espresso il mio parere:

Un giocatore NBA, non importa quanti anni resti nella Lega, continuerà ad inseguire ciò che è stato e che ha provato nella prima squadra con cui ha tagliato qualche traguardo importante. Guarda Te con i Fab Five, o Melo in assolo a Syracuse, o Jordan quando ha messo il tiro della vittoria per North Carolina…L’imprinting resta tatuato sotto quella prima maglia importante e ti perseguita per il resto della carriera.

Interessante. – mi ha detto – Potresti aver ragione. Voi donne ci prendete più di noi, è un dato statistico.

Durant potrà finire ovunque, ma cercherà sempre di chiudere il cerchio che non ha chiuso con i suoi Thunder nel 2012. È per questo che se n’è andato via dai Warriors all’inizio dell’estate, dopo aver vinto due titoli, immolato un tendine d’Achille per i Dub Brothers, ed essersi sentito dare del vigliacco una seconda volta dopo la prima diaspora dall’Oklahoma. Se n’è andato perché vuole voltare pagina, perché ha bisogno di riniziare da capo, in una squadra che possa sentire sua come ha sentito veramente suoi solo i Thunder, quelli che ha portato dal nulla fino alla Finale, nonostante sembrasse impossibile.
E perché, grazie a Dio, mentre diventava un MVP ha anche imparato a pensare con la sua testa prima ancora di pensare con la testa del suo entourage, dei media, dei social, o di chi per essi. E questo fa di Lui un fottuto Ultimo dei Moicani nel mondo degli atleti professionisti, dopo che Allen Iverson si è trasferito in Florida a pescare, chiaro.

Mi mancherà quest’anno, mi mancherà il suo basket impalpabile, apparentemente in assenza di sforzo, mi mancherà il suo modo di intenderlo, e naturalmente mi mancherà Nets contro Warriors a Natale, che sarebbe stato il più bel regalo sotto l’albero se K.D. si fosse solo strappato un polpaccio lo scorso giugno e se Adam Silver possedesse un briciolo del senso dell’umorismo e del dramma di David Stern. Peccato.
L’ho sentito intervistato alla radio, qualche giorno fa; ministri di cerimonia Quentin Richardson e Darius Miles, il duo più irriverente e alterato dall’alcol che l’NBA del nuovo millennio ricordi.

  • Quando sei sceso in campo come ti sentivi? Temevi di essere rientrato troppo in fretta?

Quando sono rientrato in campo, mi sentivo da Dio. Gli allenamenti erano andati bene, in riscaldamento ero già caldo, volevo riprendere da dove avevo lasciato, il mio gioco prima dell’infortunio era alle stelle.

  • Cosa farai quest’anno, oltre alla riabilitazione?

Sto studiando il mondo del digitale, voglio investirci sopra. Quando non giocherò più, mi piacerebbe che tutta la mia famiglia avesse un lavoro con cui guadagnarsi da vivere, senza dover necessariamente dipendere da me.

  • Perché hai scelto i Nets e il numero Sette?

I Nets perché volevo andare in una squadra giovane in cerca del salto di qualità. Il sette perché mia madre è nata il sette e il sette è il numero della spiritualità e della rinascita per eccellenza.

  • Quali sono stati i tuoi momenti più belli da giocatore fino adesso?

Gara 6 delle Finali di Conference del 2012 contro gli Spurs, senza dubbio, e le prime finali vinte nel 2017 con i Warriors.

  • E da spettatore?

Beh, la gara delle schiacciate di Vince Carter. Ero un ragazzino, l’ho seguita assieme ai miei compagni di scuola. Non vedremo più niente del genere, il livello di tutti i partecipanti era altissimo… E poi il titolo del back-to-back di Kobe del 2010, quello contro i Celtics. Che giocatore.

  • Okkei, K.D., chiudiamo in bellezza. Se dovessi giocare il tre-contro-tre della vita, chi sono i due giocatori che vorresti accanto?

Pausa di qualche secondo: Marc Gasol, di certo, e poi Mike Conley. Sì, loro due.

  • E se ti chiedessi il quintetto base con cui vorresti andare in guerra, costituito solo da ex-compagni?

Hmmm…. Steph all’uno, Harden al due, io al tre… E poi… Draymond Green da quattro e mio fratello Serge Ibaka da cinque. Devo andare con Serge da cinque.

Ma come ho detto lo stecchino sarà anche lungo quest’anno. (to be continued)