Non nascondiamoci. Non li sta valendo. Ma neanche lontanamente. 135 milioni di dollari garantiti per quattro stagioni, 160 totali se rispettati i termini per il raggiungimento di determinati bonus, rappresentano l’ammontare di uno dei contratti più onerosi all’interno di una Lega di paperoni, se mai ne esistesse una, come la NBA. E no, non li sta valendo. Le cifre sono sotto gli occhi di tutti: le percentuali di questi Playoff parlano di un Jrue Holiday alla peggior run della sua carriera, soprattutto considerata la sua centralità nei Cervi del Wisconsin. Anche nella recentissima gara 4, con la quale i suoi Bucks hanno impattato la serie di finale contro i Phoenix Suns, Jrue ha deliziato la platea con uno splendente 4-20 dal campo, in pieno stile minors. Non li sta valendo. Eppure, nonostante le copiose critiche riversatesi riguardo l’operato e i mancati adjustments di coach Budenholzer, nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione l’impiego e la presenza nei possessi decisivi di Holiday. Perché di Jrue è impossibile fare a meno, a maggior ragione per una Milwaukee dalle rotazioni già abbastanza rosicate. Ma non solo. Non starà giustificando il contrattone con prestazioni adeguate, ma Jrue ha dimostrato di saper superare ostacoli insormontabili e uscirne più forte. Sul parquet, ma soprattutto fuori dal campo.
SLIDING DOORS
“Ciao Darren, potresti farmi un autografo?”. Immaginatevi di essere uno dei ragazzi più in vista e popolari di UCLA, ateneo losangelino dove il basket, pur in secondo piano rispetto alle attenzioni riservate al football, garantisce un grandissimo seguito e attenzioni apprezzabili anche dal gentil sesso. Immaginatevi di essere una delle stelle della squadra ed essere scambiato per un tuo compagno di squadra mentre stai per sederti a vedere una partita della squadra femminile. “No guarda, mi spiace, non sono Collison”. Non sappiamo come abbia reagito la ragazza, se diventando rossa come un pomodoro o se si sia rifugiata dietro una risata nervosa e qualche parola di circostanza. Quel che sappiamo è che, a qualche seggiolino di distanza, un’altra voce femminile rompe l’impasse imbarazzante appena creatasi. ”Non preoccuparti, tu sei più carino di Darren”. L’hometown boy sta vivendo quella che sarà l’unica stagione di basket collegiale della sua vita. Papà Shawn e mamma Toya, entrambi con un passato cestistico ad Arizona State, consiglieranno a fine stagione a Jrue di dichiararsi eleggibile al Draft NBA del 2009, consapevoli che Jrue possieda già, nonostante l’esiguo background, i crismi per potersi imporre anche tra i più grandi. Holiday verrà effettivamente scelto con la numero 17 da Philadelphia ma siamo sicuri che, a distanza di anni, se dovessimo chiedergli il momento migliore vissuto a UCLA, Jrue risponderebbe di getto. Senza pensarci un secondo. Troppo scontato ricordarsi di quella frase. E di quella ragazza. Lauren Cheney. Centrocampista della rappresentativa femminile dell’università, futuro componente della nazionale a stelle e strisce dominatrice di svariate rassegne internazionali. Piccolo problema: entrambi sono fidanzati. Come fare?
Alla sua quarta stagione in NBA, a soli 22 anni, Jrue diventa il più giovane della storia dei Sixers a essere convocato, seppur come riserva, per la partecipazione a un All Star Game. La miglior stagione personale in carriera, un ruolo ormai consolidato in squadra. Tutto pare incastrarsi perfettamente. Peccato che a fine stagione non arrivino i Playoff, raggiunto insperatamente l’anno precedente e mancati nell’anno della definitiva consacrazione. Jrue merita di più. Uno con la sua applicazione difensiva e le sue capacità di leggere in anticipo il gioco in entrambe le metà campo merita di più. La trade che lo porterà nella città del jazz non renderà giustizia al livello che Jrue mostra di valere a Philly. Ma ci sarà pur sempre un motivo per cui la capitale della Pennsylvania è “Town of Brotherly Love”. Piantati in asso i rispettivi partner, Jrue e Lauren iniziano a frequentarsi stabilmente dal 2010, sfruttando anche la vicinanza tra Philadelphia e Boston, dove la giovane campionessa guida le operazioni delle Breakers. I due sono innamorati, follemente. Una storia da libro Cuore (o da film americani, se preferite), compiutamente inserita nella frenetica realtà di professionisti sportivi di leghe americane.
28 febbraio 2014. Non è anno bisesto, ma funesto sì. Almeno per Jrue. Frattura da stress alla tibia. Il responso è lapidario: out for the season. Non c’è bisogno di traduzione. Non che la stagione successiva vada tanto meglio: diagnosticategli tre settimane di stop per il riacutizzarsi del precedente infortunio alla gamba destra, Jrue ritornerà in campo dopo aver saltato 41 partite del 2015-2016. Metà stagione esatta: un’enormità nelle dinamiche NBA. Nel marzo 2016, altro stop fino a fine stagione per una frattura della zona orbitale inferiore destra, ricordino di uno scontro a meno di un minuto dal termine di un’anonima sfida contro i Knicks. Senza di lui New Orleans raggiunge solo una volta i Playoff, eliminata al primo turno da quella macchina perfetta altresì chiamata Golden State Warriors. Jrue, però, non molla. Il suo carattere rispecchia le doti in campo. Per sfuggirgli, non è sufficiente batterlo una volta. Magari neanche due. Jrue è lì, attaccato alle calcagna, pronto ad azzannare le caviglie. Sembra che si stampi sul blocco del lungo, ma in realtà le sue braccia sono in continua ricerca del pallone. Ti sono addosso, le senti, percepisci il fastidio di un palleggio imperfetto, sporcato dalle sue dita. La sua leadership, vocale e tecnica, a dispetto della giovane età lo rende tassello imprescindibile per lo scacchiere di coach Monty Williams. Jrue non molla, neanche un millimetro. Pronto per tornare l stagione successiva, a elevare ulteriormente le proprie facoltà su un campo da basket, come ha fatto dal primo momento che ha calcato il parquet della Campbell High School.
NON CELEBRANDO VITTORIE MA SUPERANDO SCONFITTE
Poche cose possono spaventare di più l’animo umano della diagnosi di un tumore al cervello. Non posso immaginarmi l’angoscia e lo sconforto che ti riempiono la vita in quegli istanti. Una di queste poche cose potrebbe essere il fatto che, a poche settimane dall’eventuale operazione per l’esportazione del corpo tumorale, dovresti partorire il tuo primogenito, figlio dell’unione con un ragazzo conosciuto per caso all’università, diventato nel frattempo marito nel 2013, confidente, porto franco dove attraccare al sicuro. Quando Lauren decide di ritirarsi dal calcio giocato a soli 28 anni, in concomitanza con la maternità, lo fa perché è convinta che Jrue, nonostante gli impegni cestistici, saprà essere un padre all’altezza, capace di essere presente anche da lontano, di regalare ai loro figli i giusti consigli e i corretti insegnamenti. La notizia del tumore, giunta nel giugno 2016, scuote tremendamente i coniugi Holiday. Al termine della stagione coi Pelicans, Jrue si aspetta una chiamata per il camp di preparazione in vista delle Olimpiadi di Rio. Non solo non squilla il telefono, mai i dottori gli regalano una pugnalata che fa male. Malissimo. Jrue, però, non molla.
“Sapete tutti quanto io ami il basket. Quanto si sfortunato a giocare al gioco che amo, nella posizione in cui sono. Ma Lauren è la cosa più importante della mia vita”. Così Jrue decide di comunicare il suo ritiro dalla pallacanestro a 26 anni, all’apice della carriera. Lascia il basket per accudire la moglie nel momento più complicato. Nel frattempo, Alvin Gentry prende il posto di Williams sulla panchina di NOLA. Mancata sicurezza e garanzia tecnica unita alla fragilità di due vite in pericolo. Non è stato facile per Holiday. Jrue, però, non molla. Lauren non molla, anzi. L’operazione ha un esito felice, così come il parto con cui dà alla luce Jrue Tyler. Via le preoccupazioni, allontanati gli incubi e le paure. Jrue è pronto a tornare, a ruggire.
Flash forward. 24 novembre 2020. Dopo l’esperienza dimenticabile nella bolla di Orlando, Jrue esplora la free agency come una delle gemme più pregiate. La sua versatilità offensiva e le capacità elitarie in ambito difensivo lo rendono un jolly, interscambiabile nei compiti con o senza palla, assai appetibile sul mercato. Ormai le prospettive a New Orleans, nonostante l’atterraggio dell’astronave Zion sul pianeta NBA, non contemplano un futuro prossimo così roseo. Uno scambio a quattro squadre porta Jrue alla corte di Antetokounmpo e Middleton, una delle coppie più eleganti e incompiute del panorama americano. Athos e Porthos hanno atteso per anni l’arrivo di Aramis. Detto, fatto. La cavalcata dei Bucks li ha portati a due partite dall’anello, che consacrerebbe la carriera di Khris e Jrue. Perché Giannis sarà sicuramente in grado di prendere altri treni nella sua carriera. Per Middleton e Jrue, il discorso è diverso. Troppo ghiotta questa occasione per lasciarsela sfuggire. Eppure, nel momento più importante, stiamo vedendo una delle peggiori versioni di Holiday dell’intera carriera. Pare che in campo ci sia Justin o Aaron. Però, Jrue non molla. Tira 4-20 ma costringe CP3 a sanguinose palle perse, non concedendogli un nanosecondo per respirare e orchestrare tranquillamente l’attacco Suns. Non vede il canestro neanche per sbaglio ma sa che nella vita si possono vivere problemi ben più gravi e complicati da risolvere. Quanto contano le critiche di appassionati e addetti ai lavori quando la tua fantastica consorte non solo ha battuto l’avversario più ostico ma ti ha anche regalato due gioie di nome Jrue Tyler e Hendricks? Tutti quei soldi magari no, ma il nostro rispetto e ammirazione sì. Quelli, Jrue, te li sei guadagnati. E potrai vivere di rendita.