NBA, Lakers e NBA Cup: doppio successo

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“L’MVP spetta a un uomo che francamente non ha più nulla da vincere in questa lega: LeBron James.” Potenzialmente potrebbe essere l’epilogo perfetto: i Lakers vincono l’NBA Cup e LeBron è il primo storico MVP del torneo, che si è rivelato un successo dentro e fuori dal campo (in particolare nei salotti degli americani, ma ci arriviamo dopo). Potrebbero scorrere i titoli di coda sulla carriera di un giocatore che, alla ventunesima stagione, non ha più niente da vincere come ha detto Adam Silver. Però stiamo parlando di LeBron James. Un ormai trentanovenne che fisicamente pare ancora lontano dal momento in cui dovrà dire basta col basket giocato, nonostante abbia già manifestato la volontà di possedere una franchigia – magari proprio a Las Vegas, dove si vocifera possa avvenire l’espansione dell’NBA – una volta conclusa la carriera da giocatore.

Lo stesso Silver ha scherzato proprio su questo con James nel consegnarli il premio di miglior giocatore del torneo, dicendosi dispiaciuto perché col premio di MVP “non è compresa una franchigia”. L’espansione dell’NBA è uno dei temi caldi sulla lista di cose da fare della Lega, ma ancor prima di questo c’è da risolvere la questione del nuovo contratto sui diritti dei media sulla NBA, da stipulare entro la fine dell’accordo attuale, in scadenza alla fine della prossima stagione.

La necessità dell’NBA Cup

Non è quindi difficile capire da cosa sia scaturita l’idea di questo In Season Tournament, che ha raggiunto i risultati sperati: accrescere l’appetibilità televisiva dell’NBA agli occhi dei grandi emittenti. Le cifre degli ascolti registrati negli ultimi anni non erano particolarmente esaltanti e serviva pertanto una scintilla che permettesse di accrescere il valore dell’NBA, intesa come prodotto da vendere ai vari emittenti televisivi statunitensi. E così è stato: le partite del torneo su ESPN e TNT hanno avuto una media di 1.5 milioni di spettatori, il 26% in più rispetto alle partite dello scorso anno giocate nello stesso periodo.

Allo stesso modo, le partite trasmesse localmente hanno fatto registrare un incremento del 20% negli ascolti rispetto allo scorso novembre, secondo quanto dichiarato dall’NBA. Il picco della fase a gironi è stato raggiunto in un partita fra Golden State Warriors e Sacramento Kings, che è stata vista da circa 2 milioni di persone, segnando così un aumento del 93% rispetto alle partite giocate l’anno scorso in una finestra di tempo comparabile, sempre secondo quanto dichiarato dalla stessa NBA.

L’NBA si era detta fiduciosa sul fatto che il torneo potesse generare guadagni in vista del prossimo accordo sui diritti mediatici della lega, e così è stato: Ed Desser, un consulente di media sportivi che ha negoziato l’accordo mediatico della NBA nel 2014, ha dichiarato a Bloomberg che si aspetta che i diritti NBA raddoppieranno “e potenzialmente anche di più”. L’In Season Tournament da questo punto di vista è stato una manna dal cielo per l’NBA, grazie alla competitività che i giocatori hanno messo in campo nelle partite del torneo, dando così valore a delle partite che altrimenti sarebbero facilmente finite nell’oblio di tutti i fan della Lega.

Inoltre, per l’NBA è stato un bene che siano stati proprio i Lakers a vincerla, in virtù del loro blasone. La franchigia di L.A. è unica per storia (paragonabile solo ai Boston Celtics) e il fatto di essere stati i primi a vincere l’NBA Cup, conferisce a questo torneo un certo valore e un’importanza diversa, come ha affermato anche Trae Young nel suo podcast.

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Lunga vita al Re

I Lakers hanno vinto soprattutto grazie all’immortale LeBron James, capace di mantenere nel torneo una media di 26.4 punti a partita con 8 rimbalzi e 7 assist, tirando quasi col 57% e il 60% da tre, alla modica cifra di 39 anni. Lo ricordiamo qualora ce ne fosse bisogno. Nonostante sia chiaro che per lui l’In Season Tournament sia stato un stimolo importante per vari motivi (nel momento del ricevimento del premio di MVP ha fatto sapere quanto teneva al fatto che i compagni con uno stipendio più basso si assicurassero il premio in denaro previsto per i vincitori), è tutto l’inizio di stagione del Re che ci lascia a bocca aperta.

Quest’anno sta mantenendo le più alte percentuali da due e tre punti in carriera, dimostrando quindi di aver perfezionato ancora di più la propria capacità di selezionare i tiri, scegliendo in quali momenti della partita accelerare e in quali controllare di più il ritmo, facendosi “da parte” per prendere parte all’azione potenzialmente in un secondo momento.

A testimonianza delle percentuali incredibili del Re, le tre triple consecutive realizzate nel secondo quarto della semifinale contro i Pelicans, l’ultima delle quali dal logo.

Per descrivere l’impatto che sta avendo in questa stagione LeBron, sarebbe sufficiente un unico dato: il differenziale di +21.2 ogni 100 possessi che i Lakers hanno quando James è in campo rispetto a quando non c’è. Anche in difesa sta facendo valere il suo genio: grazie alla velocità delle sue letture è un prezioso aiuto per Anthony Davis –  perno difensivo assoluto dei Lakers – come testimonia il plus/minus di -8.3 che la squadra ha quando AD è in campo senza LeBron. Proprio grazie al lavoro nella metà campo difensiva i Lakers sono riusciti a conquistare la finale coi Pacers, essendo stati capaci di tenere a 109 punti una squadra che in stagione regolare sta viaggiando a una media di 128.5 punti a partita.

La battaglia con Father Time

Prima di LeBron, solamente 5 giocatori avevano varcato la soglia delle 21 stagioni e, fra questi, Vince Carter (ritiratosi poi alla ventiduesima) è stato quello col minutaggio più alto con 17.6 minuti a partita. James ne gioca 33.4, con 25 punti di media, uno in più di tutti e 5 gli altri giocatori messi assieme alla loro ventunesima stagione. Il Re ha fatto capire di essere pienamente in controllo di tutto quello che accade in campo, leggendo movimenti e schemi in anticipo rispetto ad avversari e compagni. Ha decisamente dato l’impressione di poter dare ancora filo da torcere al tanto temuto Father time (espressione con cui in inglese viene soprannominata l’età) di cui aveva parlato qualche settimana fa dicendo che sta “provando a sconfiggerlo almeno una volta”.

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