NBA, Lakers: cronaca di una stagione-disastro annunciato?

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Lakers

11 luglioÈ questa la prima data chiave della stagione 2018/19 dei Los Angeles Lakers, nella quale LeBron James, all’indomani della sconfitta per 4-0 patita alle NBA Finals per mano dei Golden State Warriors, annuncia (stavolta non in mondovisione) di lasciare Cleveland per la seconda volta. Questa volta il sole è quello della California, e la conference cambia per la prima volta nella carriera di LeBron. Dopo la più che giustificata euforia di tutto l’ambiente e i tifosi gialloviola, però, arriva il momento di costruire intorno a James una squadra competitiva, ben consapevoli che, almeno per questa stagione, gli obiettivi si limiteranno al raggiungere i playoff nella Western Conference.
Detto dell’entusiasmo, dopo LeBron, iniziano a mettersi insieme i pezzi di un puzzle che, già in estate, comincia a far storcere il naso ai tifosi di L.A: oltre al core di giovani formato dal trio Ball, Ingram e Kuzma, in offseason arrivano le firme di tre giocatori che definire “poco funzionali” può sembrare un eufemismo: così dopo James, i tre nuovi nomi che dovrebbero portare esperienza ai Lakers sono quelli di Rajon Rondo, Lance Stephenson e Michael Beasley.

I MOMENTI DELLA STAGIONE

Superato lo scetticismo, dopo uno 0-3 fatto registrare nelle prime tre uscite di stagione regolare, i Lakers si portano per la prima volta sopra il 50% di vittorie nella vittoria contro gli Hawks alla tredicesima gara stagionale giocata l’undici novembre. Da qui la navigazione fino alla partita natalizia contro i Golden State Warriors è abbastanza tranquilla, senza strisce di vittorie roboanti ma mostrando una buona crescita sia difensivamente che nella costruzione di una chimica non proprio facilissima da trovare. È proprio nel giorno di Natale che arriva il secondo snodo della stagione Lakers: dopo 20 minuti di partita si ferma James, che non rientrerà più nella gara poi vinta da L.A. Oltre al secondo tempo del Christmas Game, però, il Prescelto è costretto a saltare le successive diciassette partite, nelle quali i Lakers portano a casa un magrissimo 6-11 che comincia a fare scricchiolare le speranze playoff.

Dal già citato infortunio di James in poi, però, nella franchigia californiana va in scena tutto e il contrario di tutto come avviene in qualsiasi show hollywoodiano che si rispetti. Al rientro in campo LeBron trova un record negativo dovuto a una stabilità difensiva totalmente persa anche a causa dell’infortunio di Lonzo Ball (fino a quel momento il migliore nella metà-campo difensiva) e, forse per la prima volta nella propria carriera, un fisico che non sembra garantirgli di potere reggere la “modalità playoff” così presto nella stagione. A tutto ciò, poi, si aggiunge il caos nel quale la dirigenza Lakers decide di infilarsi immediatamente dopo le dichiarazioni di voler cercare una nuova squadra provenienti da Anthony Davis per bocca dell’agente Rich Paul, lo stesso di LeBron James. Il boccone è troppo ghiotto per non provare a mangiarlo, ma la strada presa da “Maginka” è la stessa che, l’ultima estate, ha portato Paul George a rifirmare con gli Oklahoma City Thunder snobbando così i Lakers (al quale il nativo di L.A. sembrava promesso sin dal giorno dopo la trade tra Pacers e Thunder), ovvero quella del polverone mediatico e delle dichiarazioni a mezzo stampa, quasi come a volere dimostrare quanto grande sia la forza di una delle franchigie più vincenti della storia dello sport americano.
Come detto, però, secondo quanto riportato da vari reporter oltreoceano, la tattica di Magic ha portato l’effetto opposto, con i Pelicans che fino alla trade deadline hanno rifiutato tutte le offerte pervenute da Los Angeles, compresa l’ultima in ordine temporale come riportato da Bleacher Report su Instagram (con like di AD annesso). Rifiuti dovuti, probabilmente, oltre che alla possibilità di poter ricevere pacchetti più vantaggiosi da altre sedi (leggi Boston), anche alla troppa spavalderia mostrata dai Lakers, sicuramente non ben digerita dalla franchigia ora guidata da David Griffin.

 

NON TUTTA COLPA DELLA DEADLINE

Ridurre le colpe della fallimentare stagione gialloviola alla mancata trade per Anthony Davis è ovviamente riduttivo ed errato; la NBA è una lega sempre in movimento e non è pensabile che i giocatori che la compongono si sentano poco valorizzati dopo essere stati messi sul mercato quando un big di questo tipo annuncia di volere cambiare aria, ma tutto il circo mediatico messo in piedi dalla dirigenza dei Lakers ha sicuramente contribuito a spezzare un equilibrio già precario e messo in difficoltà dall’assenza del proprio leader prima e del rientro con le marce basse dello stesso poi.
Marce basse che, sicuramente, hanno inciso su quanto accaduto dal 25 dicembre in poi, ma d’altra parte pensare che un 34enne con il chilometraggio come quello di James potesse giocare al massimo con parecchio anticipo rispetto ai playoff sarebbe stato quantomeno azzardato, soprattutto in una stagione che, con le dovute proporzioni, doveva essere quella di transizione verso la vera svolta dettata dalla free agency 2019.
Oltre a tutte queste vicende, tutta la stagione dei Lakers è stata ovviamente accompagnata da rumors “minori” (che sarebbero etichettati come “enormi” in qualsiasi altra franchigia della lega) che hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco, quali, ad esempio, la sponsorizzazione di James e Rich Paul per l’esonero di Luke Walton al fine di portare sulla panchina l’allenatore dell’ultimo titolo di LeBron ed ex point-guard dei Lakers Tyronne Lue.
Basta quindi inserire tutto quanto nel calderone per potere cavarne la cronaca di un disastro che, forse, poteva essere evitato con un po’ più di prudenza e silenzio mediatico.

37-45

Questo il record finale dei Los Angeles Lakers, ampiamente sotto le aspettative (alla vigilia della stagione la quota vittorie dei bookmakers di Las Vegas oscillava tra 48.5 e 49.5) e ampiamente insufficiente per raggiungere i playoff, facendo registrare così un record negativo nella carriera di LeBron James, che fino a questa stagione aveva centrato i playoff per quattordici stagioni consecutive. A corollario di tutto ciò, poi, arrivano tre bombe destinate ad agitare ulteriormente l’estate Lakers: il 9 aprile Shams twitta che Magic Johnson si è dimesso dalla carica di presidente delle Basketball Operations, subito dopo i Lakers annunciano la separazione consensuale con coach Luke Walton e, come per suggellare il tutto, venerdì sera Woj lancia il rumor che tanti malignamente si aspettavano: Tyronne Lue è un forte candidato per la panchina alimentando la bufera intorno alla presunta “tirannia” di LeBron James.

Quello che succederà in questa estate è indubbiamente cruciale per capire cosa aspettarsi dal nuovo capitolo del drama chiamato Los Angeles Lakers: oltre a dover stabilire chi guiderà la franchigia dalla panchina e dal front office (Griffin, fino a pochi giorni fa il pezzo più appetibile in circolazione, si è già accasato ai Pelicans), è di dominio pubblico il fatto che l’aspettativa dell’ambiente gialloviola sia quella di poter affiancare a James un altro top 10 per potere tornare respirare l’aria e l’atmosfera dei playoff. Considerato Davis un obiettivo difficilmente raggiungibile (a meno che i Celtics decidano di non andare “all in”), il rischio di un’altra stagione di purgatorio è dietro l’angolo, con la consapevolezza che al termine della prossima annata sportiva LeBron James sarà entrato nel suo trentaseiesimo anno di età e, di conseguenza, la finestra temporale utile per potere tornare in alto sarà ulteriormente ridotta ad una fessura quasi inaccessibile.

Davide Quaranta
Davide nasce a Pavia il 27/02/1993. La sua personale folgorazione sulla via di Damasco avviene in tenera età grazie alle giocate di Kobe Bryant e Manu Ginobili. Laureato in Economics, finance & international integration all'Università di Pavia, si è sempre definito tifoso Lakers e interista per autolesionismo. La frase che secondo lui raccoglie più di tutte l'essenza della pallacanestro è "Ball don't lie", tanto da decidere di tatuarsela addosso.