L’intervista di The Athletic a coach Monty Williams è un autentico tratto di società americana e pallacanestro, degno di un libro di Philip Roth. Se ne sta in una bella proprietà in Texas, dove ha la possibilità di ricaricare le pile in compagnia della sua famiglia, di cacciare e pescare in piena natura aperta e di pensare. Pensare al cielo, al creato, alla fede e al modo di concepire la vita, come gli ha insegnato uno dei suoi mentori, il pastore Bil, rigorosamente con una L.
Se le tappe che lo hanno portato pochi mesi fa a giocarsi una finale NBA son sembrate infinite, per coach Williams è l’inverso. È il percorso che forma l’uomo, le difficoltà e le persone che lo compongono sono accidenti necessari. Ed è invero che per lui arrivare a Phoenix dopo una stagione da 19 vittorie era davvero una sfida, da cui però non si è tirato indietro. Ha avuto fede nel materiale umano a disposizione, ha aggiunto un uomo che porta un peso con sè, ossia Chris Paul, ed è andato vicino al sogno. Basta questo a Monty Williams per essere grato, ogni giorno.
Si parla di mentori, la domanda declina sul basket ed è innata la conoscenza del gioco che il coach ex New Orleans può sfoggiare. Plasmato dal Nate McMillan di Portland, sgrezzato dalle annate a New York sul campo con Ewing, figlio del destino di Doc Rivers a Phila e venerando del maestro di San Antonio Greg Popovich e del suo primo adepto Tim Duncan. La grande cultura, ma soprattutto la classe, di Monty Williams sono figlie di un’educazione ferrea, nella vita e nel mondo della palla a spicchi. Un’esistenza in cui il divorzio, come quello dei suoi genitori, è una concreta possibilità, ma che è solo il primo passo per la realizzazione. La fiducia e la fede sono la sua base di partenza per costruire e vedere il mondo, per trarne opportunità. Il resto lo fa il lavoro quotidiano ed il rispetto.
Se i maestri sono stati tanti, giocatori e allenatori che siano, il resto lo fa l’esperienza, specie se vieni messo a capo del progetto New Orleans in un ambiente che risputa tutto con i gorghi tipici della Louisiana, in cui eccesso e jazz sono sinonimi anche di bagordi e buchi neri. Eppure Monty Williams, con Chris Paul al suo fianco ha plasmato quella squadra, ha ridato vita a giocatori che sembravano finiti, su tutti Peja Stojakovic e Marco Belinelli, ha portato la squadra bistrattata al successo quando l’uragano Katrina aveva distrutto ogni cosa, ha riportato speranza. E poi è stato anche cacciato dalle stesse persone che spesso, come in questa Summer League di Las Vegas, sono i suoi vicini di posto in tribuna. Non c’è rancore nè dispetto, solo classe, in ogni gesto del coach.
Eppure si è chiacchierato troppo del fatto che “sgradevolmente” fosse nello spogliatoio dei Bucks. Perchè ai media piace chiacchierare e gettarlo sulla graticola dopo le accorate parole della conferenza stampa dopo la sconfitta con Milwaukee. Non poteva scintillare troppo Monty Williams in quella serata, ed ecco il fango e le ombre. Anche queste rispedite al mittente con classe, perchè fu Antetokoumpo a tirare dentro nella locker room il coach avversario, che voleva solo congratularsi con quel colosso greco, che magari non sarà quello di Rodi meraviglia dell’antichità, ma con la stessa prepotenza aveva dominato sul campo. Un uomo senza paura che voleva stringere la mano a chi lo aveva battuto, l’ennesimo dono di Dio sulla terra che esprime, nel basket, una grandezza. E’ questione di fede, e il coach nell’intervista ne parla, specie in termini di formazione di gruppi squadra.
Sta in questo il suo lavoro, a Phoenix dopo come lo era stato a New Orleans prima: avere un gruppo di uomini che uniscano le loro idee, le loro usanze e il loro pensiero, finanche la loro religione per arrivare ad una Fede comune: il modo di vincere insieme. Ed è in questo ruolo che l’arrivo di Chris Paul, anche al netto del suo sconfinato talento, ha cambiato i Suns. Nessuno, nelle parole del coach, pensava che la squadra dell’Arizona facesse i playoff, eppure il talento era quello, non si è andati oltre nè le aspettative nè le potenzialità. La squadra, a detta del suo coach, ha fatto ciò che doveva al 100% delle proprie possibilità e vinto le sue sfide, il resto non interessa.
Il futuro resta un pensiero che ora non scalfisce coach Monty Williams. C’è da riprogrammare e da ricostruire, in parte, il miracolo dell’anno scorso. Eppure il coach non ci pensa e anzi si guarda intorno, non a chi già scala i vertici della Western Conference della NBA di luglio, come i Lakers, i Clippers e i Mavericks, bensì a quelle squadre che hanno fame, che spingono dal basso, ed i nomi sono due: Kings, i più affamati di tutti e possibile mina vagante della stagione, ed i Rockets, che dalla cessione di Harden in poi han fatto scelte di mercato azzeccate ed ora hanno un gruppo giovane e solido di alta qualità. Purchè si abbia fede e voglia di spingere, ogni maledettissimo giorno, ancora la notte un po’ più in là.