Questa mattina ricevo un whatsapp che recita: “Questa è per gli amici”.
Il mittente, nonchè l’autore del pezzo, è Daniele Vecchi, un amico, un appassionato di basket vero, di quelli che anche se non senti quotidianamente sai che con un “yo bro” parte una discussione di basket che potrebbe non finire mai.
Ogni ricordo di Kobe oggi vale la pena di essere condiviso e con il suo consenso vi riporto la sua storia.
Ore 7.40 di una mattina di dicembre 2015, sono in orario per il lavoro, alla stazione di Milano Lambrate. Cammino veloce verso la redazione di Infront, dove gli Highlights della notte NBA mi aspettano per essere commentati. A quel tempo Gazzetta mostrava tutti gli Highlights, e noi con una squadra direi formidabile, li producevamo.
Davide Chinellato era il nostro vigile di redazione al quartier generale di RCS, e i ricordi di quei giorni sono intrisi di grande armonia e collaboratività.
Quella mattina ero di turno con Luca Gregorio, grande tifoso dei Lakers e di Kobe a cui io e Daniele Pigazza avevamo tassativamente proibito di presentarsi in redazione con qualsiasi vessillo dei Lakers, come spesso faceva.
Quella mattina era diversa.
Al Wells Fargo Center di Philly erano di scena i Lakers, e con tutta probabilità sarebbe stata l’ultima apparizione sul campo di Kobe Bryant nella Città dell’Amore Fraterno, la sua città.
Arrivo su dalle scale, entro, già sapendo che Greg era arrivato prima e che aveva già fatto gli Highlight dei Lakers.
Consapevolezza.
La porta a vetro si apre, lo vedo in fondo alla redazione ancora deserta che sta uscendo dal booth del voiceover, mi vede, e nel silenzio della redazione comincia a gridare “MVP! MVP! MVP!”, col suo sorriso raggiante.
I philadelphiani, gente poco comoda, gli avevano finalmente tributato quel coro che gli avevano negato 13 anni prima, quando al termine dell’All Star Game in cui era stato nominato MVP, lo avevano incessantemente fischiato anche durante la premiazione.
Scriverlo ora mi fa scendere le lacrime, perchè mi rendo conto che quello che quella sera hanno fatto i tifosi di Philly, che hanno sempre odiato Kobe, ripudiandolo ingiustamente come figlio della loro città (riconoscendo solo Sheed come tale, perché proveniente dal ghetto di Germantown, non dalla residenziale Lower Merion), è stato qualcosa di grandioso. Un miracolo.
Odio e amore.
Come Mario Castelli io ero sempre CONTRO Kobe, lo ha persino scritto Neffa nella prefazione di un mio libro. Era una cosa che traspirava. Non ho mai sopportato Kobe. Ma ero abbastanza appassionato del gioco per riconoscerne la immensità, perennemente combattuto tra astio e ammirazione, come il più perfetto dei coglioni.
Il mio bipolarismo intrinseco mi faceva sempre combattere, pugni, calci, testate, cinghiate, su un ring, per la strada, ovunque ero in conflitto, a riguardo di Kobe.
L’argomento chiave era l’accettazione e l’elaborazione del fatto che lui era comunque un figlio di Philly, e che nonostante fosse diventato una icona dei Lakers, squadra e città al totale opposto di Philadelphia, che nonostante la sua vita fosse nella West Coast e non avesse mai dichiarato particolare amore per the City of Brotherly Love, la sua città rimanesse sempre nel suo cuore.
Battaglie feroci, all’ultimo sangue, sempre senza nessun vincitore.
Sempre sto cazzo di bipolarismo si infervorava quando lo sentivo parlare in italiano, ero così orgoglioso e così entusiasta, mentre cercavo di soffocare questo entusiasmo.
Frammenti.
Sul campo parlava a Sasha Vujacic in italiano, per non farsi capire dagli altri.
Schegge.
SE NON CREDI IN TE STESSO, CHI CI CREDERA’?
Quello spot.
Da brividi.
Nostalgia.
Kobe mi ronzava attorno, sempre.
Allen Iverson in Gara 2 delle NBA Finals del 2001, quando ormai era chiara la sconfitta dei Sixers, fece il gesto di mostrare a Kobe la canotta nera dei Sixers, dicendogli “guarda questa canotta da trasferta, perché non la rivedrai più!”, intendendo che con le tre partite successive a Philadelphia la serie si sarebbe chiusa là.
E aveva ragione, The Answer.
Ma nel senso esattamente opposto.
Ma nel senso esattamente opposto.
I Lakers, e Kobe, avrebbero vinto le tre partite successive in trasferta, laureandosi campioni NBA, proprio nella città di Kobe.
Ricordi.
Nessuna retorica, nessun qualunquismo, nessun passo indietro. Sono quel che sono sarò quel che sarò cantavano gli Strike. E così è.
Non rinnego nulla, ma ora purtroppo il mio bipolarismo è rientrato, settato su un unico pensiero.
Devastazione e stordimento.
Desolazione e smarrimento.
E una infinita tristezza.
Kobe se n’è andato, e con lui purtroppo anche la figlia Gigi di 13 anni. Tutto troppo presto e troppo velocemente. Il vuoto è immenso.
Mi consolo pensando al sorriso di Greg quella mattina, e consolandomi, sorridendo a mia volta, piango.