Andre Drummond ai Lakers. Blake Griffin e LaMarcus Aldridge a rimpinguare il reparto lunghi dei Nets. I Gavrilo Princip della NBA dei giorni nostri: gocce che hanno fatto traboccare il vaso. Le firme degli ex All Star per le due contender più accreditate a raggiungere le NBA Finals hanno scatenato la reazione di diversi proprietari, secondo i quali il mercato dei buyout favorirebbe in maniera sproporzionata un gruppo ristretto di franchigie dotate di un bacino d’utenza commerciale più attraente per le attività correlate al macinare chilometri sul parquet. Non è nostro obiettivo quello di considerare la legittimità delle rivendicazioni, né considerare l’impatto storico dei giocatori acquisiti dalle varie squadre negli anni tramite questo “espediente”. Quello che pare certo, a scanso di equivoci, è che le sorti e i risultati sportivi non dipendano da tornaconti economici, almeno Oltreoceano. Se si lavora bene, se si sviluppa un progetto equilibrato e bilanciato, i grandi giocatori sono disposti a muovere le proprie aziende personali a prescindere dall’ubicazione. Non si spiegherebbe altrimenti come mai, nel pieno deserto dell’Arizona, possiamo trovarci davanti una delle realtà col futuro più roseo dell’intera Lega. Ladies and gentlemen, here you go Phoenix Suns!
PRIMORDI
La classica vecchietta che minaccia di bucarvi il pallone ogni volta che, scavalcando la siepe, termina la corsa nel suo giardino. Agli occhi di Robert Sarver, proprietario dei Suns dal 2004, l’attivista Greta Rogers dovrebbe aver fatto quell’impressione il 13 dicembre 2018. A dir la verità, quella di Greta non è stata la prima voce critica a levarsi contro la dirigenza Suns negli ultimi anni, rea di non aver saputo gestire nel corso delle stagioni il potenziale raggiunto nel lustro 2003-2008 con la Seven seconds or less di D’Antoni-Nash-Stoudemire. Da eterni incompiuti (persino quella squadra non raggiunse l’anello), nel corso del decennio successivo la comunità di Phoenix ha spesso rimproverato a Sarver e soci di non investire abbastanza per garantire un futuro florido alla franchigia. L’escalation seguita alle dichiarazioni della signora Rogers fu rapidissima: nel giro di un mese il comune di Phoenix e il GM si accordarono per un investimento totale di 230 milioni per rinnovare la Talking Stick Resort Arena, assicurando la permanenza della franchigia in Arizona sino al 2037. Le voci di una possibile relocation della società si allontanarono: lo spettro di Seattle non faceva più paura, nonostante gli incassi al botteghino e i risultati della squadra non fossero all’altezza del resto della Lega ormai da anni. La grandezza e la lungimiranza della decisione del gennaio 2019 verranno misurate nel corso delle prossime annate, ma i segnali sono più che incoraggianti. Una delle pochissime squadre ad allenarsi ancora nella stessa struttura che ospita le partite ufficiali, i Suns hanno destinato oltre 10 milioni di euro in attività benefiche per la comunità locale e per la ristrutturazione della facility. Il rapporto con la città risulta così cementato, mentre l’ambiente di lavoro è a oggi uno dei più avanguardistici dell’intera America.
Nel laboratorio dell’Arizona, infatti, ogni giocatore e membro dello staff ha a disposizione materiali e strutture di ultima generazione per poter migliorare i singoli aspetti del proprio gioco. Esempi tangibili? Nate Bjorkgren, attuale head coach di Indiana, ha trascorso in Arizona tre anni prima di diventare vice a Toronto nei quali, da leading player developement coach, curava ogni dettaglio riguardo i movimenti in campo di ogni atleta a roster, programmando sedute tecniche individuali specifiche per ogni evenienza. Oppure Riccardo Fois, player developement coach per l’attuale staff di Monty Williams, fiore all’occhiello dell’export del basket nostrano, ponte di collegamento tra la concezione americana, collegiale ed europea della pallacanestro. A Phoenix si lavora bene. Spesso sottotraccia, lontano da riflettori talvolta stordenti e accecanti. Anche nel deserto, i germogli sembrano maturare rigogliosi.