NBA playoffs: forse cambia niente, mentre cambia tutto

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Riprendendo il “Niente paura” di Luciano Ligabue, potremmo così definire le prime battute di questi primi turni di playoffs NBA, dove è iniziato “l’altro sport” rispetto alla regular season, che in realtà ha si degli stravolgimenti a 360°, ma anche alcune basi che si porta dietro da 82 partite.
Valutare le serie di playoffs da un rovescio nelle prime due partite è quanto di più sbagliato si possa fare, perché spesso un blowout in gara uno è portatore sano di upset nella seconda, come i Miami Heat e un vintage Dwyane Wade hanno raccontato chiaramente.

BENCH-MARK

Dopo aver sfatato una vera e propria maledizione da gara uno vincendo dopo nove sconfitte consecutive, racimolate nella storia recente, i Toronto Raptors sono il più classico esempio del: non cambia niente.
La metamorfosi della squadra di Casey ha coinvolto prima di tutto la mentalità delle proprie stelle che si sono convinte della necessità di fidarsi dei compagni, ma anche da un radicale cambiamento nel playbook che ha portato la squadra ad adattarsi perfettamente al basket moderno fatto di ritmo, circolazione e tiro da tre punti, mettendo in soffitta l’antico e insistito isolamento per le stelle.

Da questo ne è uscito un 2-0 contro i Washington Wizards che affonda le radici in una gara uno dove Lowry e DeRozan, non nuovi a partenze difficili, hanno litigato con i ferri di casa non riuscendo a impattare statisticamente, ma hanno giocato per i compagni che in Serge Ibaka, CJ Miles, OG Anunoby e Delon Wright si sono fatti trovare prontissimi a raccogliere il testimone e risultare semplicemente decisivi. Poi quando, nella seconda partita, DeMar ha fatto il DeMar sono usciti tutti i punti di forza dei Raptors, che hanno evidenziato tutte le lacune strutturali dei Wizards in una situazione emotiva e umana riconducibile alla foto qui sopra. La serie ora è indirizzata verso la squadra di un Drake che non lesina commenti e trash talking a bordo campo, ma Washginton ha talento e profondità che, nonostante i problemi, potrebbero comunque venire fuori e invertire la rotta.

TROUBLE

Così recitava un post su Instagram dei Portland Trail Blazers dopo la sconfitta in gara due contro i Pelicans che, per inciso, è stata la seconda in altrettante partite casalinghe.
Se volevamo anche l’esempio alla voce “cambia tutto” la squadra di Stotts calza a pennello, perché in regular season il Moda Center è stato un fortino difficilmente espugnabile con Lillard, McCollum, ma soprattutto una serie di gregari anche inaspettati che hanno dettato legge con qualità di gioco, chiarezza di idee e soprattutto la concretezza necessaria per conseguire il meritato terzo posto a ovest.
Ora, dopo due partite, sono sulla famosa roccia di Acapulco con dietro il vuoto e davanti la figura di Anthony Davis pronta a dargli quella spintarella per farli volare giù. Se la gara uno di Unibrow (ancora tale dopo il pesce d’Aprile) è stata leggendaria per dominio, ma soprattutto per essenzialità visto che ha controllato il match quasi senza farsi notare in modo fragoroso se non per un “good pass boy” urlato tre volte a un ispiratissimo Rajon Rondo che aveva propiziato il parziale.

Già…Rajon Rondo. Un caso clinico da studiare a fondo per ogni psicologo del pianeta, perché se la sua gara due ha sfiorato la tripla doppia, il primo atto della serie è stato clamoroso con 17 assists e soprattutto una gestione del pick and roll al limite del computeristico.
È proprio la difesa sul gioco a due senza arte né parte a essere il vero tallone d’Achille dei Blazers che non sono MAI riusciti ad arginarlo; che questo fosse portato da Rondo (con i suoi chiari limiti) o Holiday. Stupisce davvero che una squadra così ben allenata e così preparata tatticamente possa cadere nelle sabbie mobili di un pick and roll centrale senza contromisure dovendo ora scalare un Everest quasi insormontabile.

MVBEARD

In gara uno ha scritto a referto 44 punti con un momento nel quarto periodo dove si potevano spendere paragoni con le divinità cestistiche. James Harden, per scavare il parziale che poi è risultato decisivo, ha messo in scena tutto il suo campionario di movimenti offensivi facendo letteralmente impazzire anche un super difensore come Jimmy Butler.
È artefice di quello che potrebbe essere sostanzialmente il movimento più immarcabile dell’NBA 2018: lo step back da tre punti. La sua capacità di ball handling obbliga il difensore a stare a distanza di sicurezza, se a questo uniamo un’incredibile efficacia al ferro, l’obbligo di esporsi alla soluzione più difficile che puoi concedergli diventa automatica. Il suo step back da tre è diventato un trademark move e nonostante l’1-10 da dietro l’arco in gara due (che i Rockets hanno vinto in carrozza comunque) la locuzione “pick your poison” con lui è quantomai d’attualità.

Oltre a questo è stato in grado di far siglare il career high nei playoffs a Capela che molto spesso deve solamente saltare per spingere il pallone nel canestro.
Per questa stagione non possono esserci dubbi sull’MVP e se ora anche ai playoffs riuscirà a portare i suoi alla terra promessa, potremmo essere davanti a una delle stagioni individuali più importanti della storia del gioco.
I detrattori aspettano al varco, ma dovrebbero rassegnarsi alla sua grandezza, che il titolo arrivi quest’anno, l’anno prossimo o anche eventualmente mai. Gli anelli legittimano una carriera, ma non sono sempre l’unico metro di paragone.

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