NBA: il ritiro di Shaun Livingston, Hall Of Famer della perseveranza

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Livingston

Il 13 settembre, Shaun Livingston ha annunciato il suo ritiro dal basket giocato. Questa stessa decisione avrebbe potuto prenderla, forzatamente, molti anni prima, se le cose avessero seguito una loro logica. Ma nella carriera di Livingston, per fortuna, c’è stato qualcosa in più, che ha più a che vedere con il miracoloso che con lo scientifico.

GIOVANE MAGIC

L’ex giocatore dei Warriors fu scelto alla numero 4 dai Los Angeles Clippers al draft del 2004. Livingston proveniva direttamente dall’high school e, per visione di gioco e altezza – combinate al ruolo di playmaker – nell’immaginario dei tifosi e di molti addetti ai lavori il paragone più ovvio (e avventato) era quello con Magic Johnson.
Le prime due stagioni lo hanno visto prendere pian piano confidenza con il gioco NBA, lui che era ancora un tardo adolescente dagli arti lunghi e magri contro uomini fatti e finiti. Dopo che la sua media punti aumentò gradualmente nei primi due anni, la terza stagione doveva essere quella della consacrazione, o quantomeno era lecito aspettarsi ulteriori passi in avanti.

In realtà, il 26 febbraio 2007, suo malgrado, compì migliaia e migliaia di passi indietro, distruggendosi letteralmente il ginocchio: i tre legamenti saltati più la lussazione della rotula, che purtroppo aveva causato danni maggiori.
Lo spostamento dell’osso dalla sua sede aveva interessato l’arteria poplitea, che passa dietro il ginocchio ed è l’unico vaso sanguigno che irrora la parte inferiore della gamba. Se il suo flusso si altera, e non si interviene in tempo, il rischio è l’amputazione della gamba, come ampiamente paventato. Un infortunio terribile, più comune al campo da football che al parquet, ma tant’è.

 

Da giovane promessa a futuro rimpianto il passo fu brevissimo e lungo allo stesso tempo. Mesi e mesi di riabilitazione solo per recuperare l’abilità a camminare furono necessari, infatti tutto sembrava perduto.
Ovviamente alla fine del suo quarto anno, i Clippers non gli offrirono la qualifying offer, rendendolo un unrestricted free agent. Da qui, Livingston compì un recupero tra il clamoroso e il miracoloso, ma non c’erano squadre disposte a dare chance vere e proprie all’ex Clippers, che così viaggiò tra Grizzlies – poi tagliato – Oklahoma City e la D-League, Washington, Charlotte e molte altre, fino ad arrivare alla stagione della svolta, la 2013-14.

LIVINGSTON 2.0

A luglio 2013, i Nets gli diedero la famosa chance di cui sopra, per fargli fare da backup a Deron Williams. L’ex Utah, però, era un altro play estremamente talentuoso ma altrettanto fragile, tanto da finire k.o. anzitempo anche in questo caso.
Il suo posto in lineup fu preso, manco a dirlo, da Livingston, che ebbe modo di mettersi in mostra anche e soprattutto nella propria metà campo, giocando anche 76 partite, suo career high (battuto nella stagione successiva). Da lì, la chiamata degli Warriors nella successiva free agency. Golden State negli ultimi anni è stata meta incessante di veterani alla ricerca di un anello, magari prima di ritirarsi definitivamente. Per Livingston, però, i Warriors sono stati molto di più, e soprattutto il rapporto è stato decisamente biunivoco. Da un lato, Golden State ha permesso all’ex Clippers di ritirarsi con tre anelli vinti da protagonista, dall’altro l’ex McDonald’s All-American si è ritagliato un ruolo imprescindibile nella second unit, grazie alle sue innate abilità difensive (favorite dal fisico longilineo), il suo playmaking e al fatto di essere, a suo modo, un highlander.

Non sono molti i giocatori che ricorrono sistematicamente al tiro dalla media come arma offensiva principale, ma Livingston è uno dei pochi farlo con frequenza e soprattutto efficienza.
Quando un giocatore subisce un infortunio serio, è prassi sostenerlo con la classica frase “tornerai più forte di prima”. All’epoca del disastro di Livingston i social non c’erano, o comunque erano agli albori, ma difficilmente avremmo letto frasi come queste. Quello che ha fatto non ha precedenti, per la gravità dell’infortunio e per il modo in cui il giocatore ha saputo ricostruire articolazione e carriera.

 

Non sarà stato il più grande scorer di sempre, non sarà stato Magic Johnson, ma si è riuscito a ritagliarsi uno spazio bello grande nella storia del Gioco. Ne è sicuramente grato lui, ne siamo grati noi altrettanto.