Potrebbe essere una storia in cui un atleta – nel nostro caso due – mette a frutto il suo talento e riceve gli allori che merita. Le circostanze sono diverse e si parla di Irving e Simmons per ragioni differenti. All’alba della nuova stagione la situazione che vede protagonisti due fra i giocatori più pagati del mondo NBA è a dir poco paradossale. Un crescendo di notizie, annunci, smentite e soldi che restano sul piatto, cosa non da poco visto il periodo di vacche magre legate alla pandemia.
Sull’NBA dei contratti cavillosi, quella di agenti potentissimi e di giocatori con la valigia in mano, l’ombra delle sabbie mobili è vasta e profonda. Rich Paul ha creato un impero, che prima vantava il cavallo di razza LeBron James e ora può contare su un pacchetto di giocatori d’elite. E Ben Simmons è fra i ragazzi rappresentati. Ora, le scorie dei recenti playoff e l’umiliazione – termine che scelgono i tifosi 76ers – della sconfitta con Atlanta sono un peso che l’australiano non ha saputo reggere. Sono bastati un paio di quarti periodi da zero punti ed ecco che dell’australiano si ricordano solo l’infortunio – con annessa lunga attesa – e la scarsa vena (per non dire attitudine) dalla lunga distanza. Una frattura che la tifoseria non ha mancato di rimarcare e che il giocatore ha usato come leva per dar voce alla sua frustrazione. I social han fatto il resto e Rich Paul ha messo su piazza il suo protetto come atleta da valorizzare in altri lidi.
Se tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, i tempi e i modi non hanno aiutato. Il fatto del volersi estraniare da una squadra, al punto da disertare il training camp già dai primi mesi estivi non è che abbia fatto fare al ragazzo una così bella figura. Se ci si aggiunge che Philadelphia per scambiare il suo gioiello della corona chiedeva una squadra intera o un pacchetto di scelte complesso, si capisce del perchè Simmons sia rimasto col cerino in mano. Sacramento, al contrario di San Antonio e Portland, aveva quasi pensato di smantellare il suo roster, ma queste presunte trade sono state più un artificio giornalistico che non una reale possibilità. E Ben Simmons ha “iniziato” la sua stagione perdendo le prime due tranche del suo ben ricco emolumento.
Toccato nel portafoglio, lì dove solo si può far male un giocatore che rifiuta di erogare la sua prestazione prevista da contratto, ecco il passo indietro. Simmons sposa di nuovo la causa di Philadelphia e potrebbe decidere di ritornare sul parquet e di dare il suo contributo alla squadra. A chi? A un gruppo di cui doveva essere il leader e che ha palesemente rinnegato? A far da spalla da Embiid che lo ha pubblicamente criticato – non trollando come suo solito – per la sua scelta di piantarlo in asso? Rich Paul, che è colui che ha tolto l’obbligo di laurea agli agenti, nonchè quello che ha creato possibilità per atleti di college di accrescere le sponsorizzazioni individuali, ha parlato chiaro ancora una volta e non alza bandiera bianca, anzi rilancia. Simmons tornerà, magari in attesa di una trade – il vedremo sarebbe stato d’obbligo – ma è pronto a dare tutto per Philadelphia, e nelle sue parole si palesa una risata sardonica come di uno che non vuole far perdere tempo e soldi ai suoi atleti. Magari se chiedessi a Noel il parere sulle scelte del suo ex agente, di certo vedremmo il quadro da un’altra prospettiva, ma questa è un’altra storia. O forse è la stessa, visto che prima del passo indietro – per il momento solo verbale – la perdita economica delle prime due tranche dello stipendio è reale e tangibile. Interessante la battuta a buon mercato di Doc Rivers, che in conferenza stampa ha detto che per gli aggiornamenti su un suo (più o meno) giocatore chiederà a Woj per il prosieguo della stagione.
Restando sulla costa Est, il caso Irving esplode e deflagra in quel ginepraio di vicoli che è Brooklyn. Squadra da titolo non c’è che dire, ma nella quale il giocatore ex Cleveland e Boston (e che quando lasciò i Celtics entrò nell’ombra e nelle mire del solito Rich Paul) sembra essere una scheggia impazzita, anche e soprattutto per se stesso. Non è il campo a parlare, quanto il suo essere eccentrico – per così dire – nelle sue idee di massa. Dal più celebre terrapiattismo fino alla recente opposizione per il vaccino anti covid-19, obbligatorio per tutti gli appartenenti alla lega di Adam Silver. Analogo caso era quello di Wiggins a Golden State, ma di lui, tranne la ramanzina ricevuta da Draymond Green, si parla molto meno.
Irving, fermo nella sua posizione di accanito no vax, al di là delle regole NBA non può disputare allenamenti e/o partite domestiche con la maglia dei Nets. È in pratica un separato in casa – al pari del sopracitato Simmons – per sua scelta, al quale però è affibbiato anche un divieto di avvicinamento a quel rettangolo di legno su cui incanta per estro e talento. E non si dica che i Nets in quel ruolo hanno Harden e Durant, che sono giocatori formidabili e sopraffini, ma che non hanno la follia cestistica insana del ragazzo uscito da Duke. E già Steve Nash, che dei Brooklyn è il coach/gestore/migliore amico, incalzato dalle domande della stampa, aveva risposto in maniera vaga.
Tranchant è la presa di posizione di Sean Marks, GM dei bianconeri al di là del ponte, che ha sancito l’esclusione da tutte le gare, in casa e fuori, e dagli allenamenti di Irving se la situazione non mutasse di qui a breve. Parole pesanti quelle della dirigenza, che se da un lato hanno aperto a una possibilità di trade, da un altro punto di vista possono nascondere altri fini. Questioni umane, d’opportunità ed economiche, con il contratto ed i suoi cavilli che pesano ancora una volta. Facendo ordine, Irving ha fatto sapere tramite la sua agenzia che in caso di trade potrebbe addirittura appendere le scarpette al chiodo e ritirarsi (cosa smentita nella Instagram live della notte scorsa=ì). Scelta ad effetto e che frena chiunque volesse rischiare di avvalersi dei suoi servigi e che frena anche le mire di Brooklyn di cedere una big star scontenta per prendere magari un pacchetto di giocatori di contorno da far partire dalla panchina. Sappiamo che però il buon Kyrie è un eclettico della peggior specie e quindi le sue parole vanno prese cum grano salis.
Di opportunità economica sono le valutazioni di Brooklyn, che deve risparmiare e sa che da questa situazione siamo ad un punto di lose/lose. Irving ha ancora 71 milioni a libro paga e il suo non impiego è più vicino a una coach’s decision che non a una scelta personale, come dicevamo invece prima per Simmons. Non si può tagliare il suo emolumento ma lo si può sensibilmente diminuire. Per come è strutturato l’accordo, i pagamenti sono proporzionali sia agli allori personali e di squadra legati al rendimento, ma anche e soprattutto ad un numero di partite minime in regular season e nei playoff. Qualora Kyrie dovesse rimanere seduto a guardare tutto l’anno, i suoi bonus non scatterebbero e Brooklyn risparmierebbe qualcosa anche in termini di luxury tax. Ecco quindi il perchè Sean Marks potrebbe essere uscito già oggi con la sua dichiarazione, visto che così ha dato un aut aut al giocatore o a chiunque fosse a lui interessato. Brooklyn è anche disposta a trattare, ma solo a patto di guadagnarci e non poco.
Chissà che di qui a breve qualche agenzia non interverrà a supporto del giocatore, il quale continua nella sua posizione e non sembra intenzionato a passare. Strano, per uno che quando decide di buttarsi dentro o di fintarti, alla fine fa sempre come gli pare. Purtroppo per Marks, Nash e i Nets, di solito in queste azioni il rumore del cotone è sempre il suono che segue – magari non come avviene con la stessa frequenza per Simmons – e quindi Kyrie alla lunga potrebbe aver ragione. Anche perchè, con un occhio attento e malizioso, ben potrebbe sottolinearsi ai Nets che nella sola seconda settimana di regular season avranno 12 giorni di partite lontani dal proprio stato, 6 gare in trasferta più o meno consecutive nelle quali Irving potrebbe essere abile e arruolabile. Perchè non sfruttarlo?