NBA: Vince Carter, la casa che non ha mai costruito (part. 2)

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Vince Carter
Grafica di Grazia Cifarelli

Eravamo rimasti nella prima parte del nostro volo agli up and down di Toronto e a un Vince Carter – non più ai Raptors – destinato a cercare fortune altrove. Le strade che sembravano dividersi avrebbero avuto un’unione indissolubile, ma nessuno dei nostri protagonisti avrebbe potuto minimamente immaginarla.

IL LUNGO VOLO DI AIR CANADA: NEVER A RING!

Come l’Air Canada, citando le parole di John Grisham ne “il professionista” non è considerata dagli americani una compagnia luxury, così la carriera di Vince Carter, sicuramente immortale, non può dirsi perfetta per quell’anello che è mancato a coronare i suoi salti e le sue giocate, sempre presenti in ogni anfratto delle sue gare. Ai Nets ha vissuto alcune delle stagioni migliori, quando all’apice della carriera con Jason Kidd e Richard Jefferson formava un trio che poteva fare e disfare vittorie con lo stesso talento e facilità. Purtroppo le apparizioni alle Finals sono state quasi da spettatore, con la truppa del New Jersey che non ha mai avuto realmente delle possibilità di conquistare l’anello. Da lì in poi, quando il sole sembrava aver cominciato a tramontare, alcune tappe di spizzichi e bocconi come Orlando, Phoenix e Dallas, in cui diventa un gregario che non ha più, anche e soprattutto anagraficamente parlando, la forza per combattere la nuova era di superstar. Da lì a Memphis e succede una sorta di magia.

I Grizzlies erano in origine la seconda franchigia canadese, stanziata in quel di Vancouver e avevano preso Vince per provare ad avere un giocatore di contorno, che magari desse anche una mano in fase di costruzione della squadra giovane. Gli anni di Memphis, lontano dai riflettori, diventano per Carter la possibilità di rinascere alla soglia dei 40 come uno specialista, uno shooter che esce dalla panchina e piazza triple mortali e che di certo non puoi lasciare da solo in campo aperto in contropiede. Questa nuova modalità – neanche fosse un videogioco, cosa che guardandolo saltare ad inizio carriera si pensava – gli regala una seconda giovinezza, un giocatore di contorno che matura e fa maturare il contesto. Il 2014 è però quello di una ferita che si rimargina, con l’applauso e la storyline dedicata da tutto il pubblico di Toronto, che gli perdona quella partenza – da lui mai voluta in realtà – e torna a indossare la 15 in viola con retro nero e col dinosauro. Lacrime, commozione, di qui il ritiro?

Scavalla i 40, e non parliamo di punti, Sacramento lo prende e se lo tiene, poi di qui ad Atlanta, che di giovani ne ha tanti, alcuni con una faccia tosta e la determinazione giusta: Vince li mette in riga, dalla prima stagione è un mentore, specie per Trae Young che nei primi mesi spara dai 10 metri e non vede il ferro. Atlanta non andrà ai playoff ma Vince, come aveva provato a fare a Toronto, lascia l’imprinting sui suoi compagni, e questi lo convincono ad un secondo anno in maglia Hawks. Il coronavirus ci elimina la possibilità di vedere una sua ultima partita, in cui – data anche la classifica non eccelsa di Atlanta – di sicuro avrebbe ricaricato le batterie per l’ultima volta e col tritolo avrebbe disintegrato le nostre certezze in quanta a fisica. Ma mai dire mai…

E INTANTO TORONTO VINCE, CON KAWHI…

Puoi avere annate buone e costruire, ma se poi ti sgretoli come neve al sole nel momento topico non hai ottenuto nulla. La scelta di puntare su Kawhi Leonard per un anno da all-in è stata in controtendenza rispetto a tutto. Hanno preso una superstar diversa – uno che forse per certi versi incide sulla squadra più che sul record di vittorie come era stato Vince – e tanta gente di attributi e grinta che avrebbero dovuto fare da contorno. La squadra aveva i suoi alti e bassi, ma si trova compatta nei playoff. Il celebre canestro di Kawhi in gara 7 contro Philadelphia, ancora una volta chiamata a frapporsi sul cammino della storia di Toronto, è sintomatico non solo dell’ausilio degli dèi del basket, ma che la maledizione era finalmente infranta. Tra il fade away di Leonard e quello di Carter la differenza è poca, ma stavolta la palla s’insacca la retina e si vola ad affrontare con spirito diverso le Finals. Date un occhio…

Qui quell’edificio sportivo che Vince Carter non era riuscito a portare a compimento, trova la sua pienezza, perché intorno al faro ex Spurs si muoveranno un Danny Green molto maturo, un Kyle Lowry che dimostra le sue sottovalutate doti di playmaking – che tolto forse solo Stoudemire, lo pongono sul podio della storia Raptors vicino a un Siakam eccezionale e soprattutto un bad boy che fa impazzire il pubblico: Fred Vanvleet che in pochi consideravano prima ma che diviene un eroe uscito da quei quartieri che Vinsanity ha contagiato col basket. E lì, a bordocampo, a festeggiare dalla prima fila, Drake, che esporta Toronto e la sua musica nel mondo in un modo che era stato proprio il numero 15 con le Shock e il tritolo ai piedi a innescare… Coincidenze? Difficile davvero a credersi…