Sarebbe bello poter iniziare una storia con una di quelle frasi ad effetto, ma la March Madness del torneo NCAA, ossia quella che abbiamo imparato a conoscere dal 1985 ad oggi, è qualcosa che difficilmente puoi racchiudere in un virgolettato. La verità sarebbe sussumibile dalle parole di Charles Barkley, che avrà anche una particolare visione delle cose, ma spesso con la sua lingua tagliente sa andarci deciso come le big schools – tendenzialmente – dovrebbero fare con le cosiddette under dog:
La differenza tra un buon tiro ed uno pessimo, sta solo nel suo risultato, se entra o esce da quel dannato cerchio.
Aggiungerei all’assioma, calato squisitamente al mondo NCAA, che quando quel tiro non va a bersaglio, abbiamo l’upset e la magia di Cenerentola. Non serve il “Bibidi-bobidi-bu!” la magia su parquet fa da sé e non si può non parlarne.
LA PRIMA VOLTA DI UMBC
“It’s not how big you are, it’s how big you play.” (John Wooden)
Senza troppi giri di parole, è stata la partita che ha mandato alle ortiche i migliaia di bracket che tutti gli appassionati del mondo, dagli analyst a Barck Obama, avevano stilato. Nella storia del torneo universitario mai una numero 16 aveva rubato lo scettro alla numero 1, che in questo caso essendo Virginia si trova, come ormai impareremo a ricordarla, dalla parte sbagliata della storia. Ora che dietro a una piccola università come Maryland Baltimore County ci possa essere una grande storia, non ne dubitiamo, perché il certosino lavoro di piccoli atenei è proprio il principio su cui si fonda lo sport universitario americano, eppure la gara ha cambiato e non poco le percezione di un’intera parte di tabellone. Quella gara è stato un chiaro sintomo del basket fondato su certezze e cambi di ritmo. Non si spiega perché una squadra che aveva sempre difeso alla grande, limitato il numero dei possessi avversari, perda contro una squadra che gli da 10 cm di media in altezza e altrettanti chili in peso, ma che soprattutto era alla sua prima vera partita importante della storia (salvo una toccata a fuga 10 anni fa). Ebbene, la capacità dei Golden Retrivers è stata quella non solo di giocare la gara della vita, ma di portare Virginia fuori dalla propria comfort zone, costringendola ad affrettare i tiri e accelerare i ritmi del proprio gioco. Non può infatti essere l’assenza di questo o quel giocatore a dare il là a giustificazioni e i tracolli di North Carolina, Arizona e Michigan State, accreditate alla vigilia, ne sono la dimostrazione. Se trovi nel tuo giorno storto l’avversario che dà il suo meglio si torna a casa.
UNA VITA DA MEDIANO: LÍ, SEMPRE LÍ
“There are really only two plays: Romeo and Juliet and put the darn ball in the basket.” (Abe Lemons)
Quando Don Haskins ripeteva a Bobby Joe Hill su quali proposte alternative alla sua Texas Western avesse nel paniere delle borse di studio, faceva dei nomi altisonanti: Kansas, Duke, Kentucky, ecc.
Guardare il tabellone non prescinde più dai soliti tre-quattro nomi, con i Jayhawks e i Blue Devils che, quasi in carrozza, un posto in elite 8 se lo sono presi, sempre e comunque verrebbe da dire. Sembra passare il tempo soltanto per gli altri atenei, tra qualche exploit o meno, ma così come nel mondo del basket professionistico, sembra che in alcuni campus il velo di Maya o, se preferite, la Coperta di Linus di una stagione sempre vincente non possa andare via. Sono università ricche, che hanno coach importanti, che praticano addirittura sempre la stessa pallacanestro, eppure quando ci sono le partite che contano, sanno come vincere. Non è un caso che siano proprio quelle delle solite “sorelle” le squadre più esperte, con Duke ad esempio che sui 351 atenei di Division I si piazzava al 350° posto per età media più bassa. Vecchie volpi del parquet dunque – con un genio del male come Grayson Allen a fare il capobanda – ma grande organizzazione, neanche lontanamente visibile altrove. Pat Riley, che se sfoglio gli annali è uscito da Kentucky e che quel Don Haskins lo ha anche conosciuto sul campo, riassume:
Excellence is the gradual result of always striving to do better.
Sarà questo il segreto delle big sisters? Oppure…
FROM FAIL AND JAIL, NOW GLORY
“Commitment separates those who live their dreams from those who live their lives regretting the opportunities they have squandered” (Bill Russell)
Non bisogna girarci intorno, questo è un anno zero o quasi per la NCAA, tra gli scandali in cui l’FBI è intervenuta con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli, cimici in camere d’albergo e scenari che erano degni di quelli di Hoop Dreams (il film sul college basket con Shaq e Bird per intenderci). Titolo revocato a Louisville (quello della gloria di Peyton Siva per intenderci), squalifiche ad atenei prestigiosi e un giro di chiamate alla Selection Sunday che ha fatto discutere e non poco in tutto il continente americano.
Syracuse e Tennesse, due delle teste tagliate negli anni passati, hanno rivisto finalmente la luce, con buone prestazioni anche all’interno del bracket, ma la prima goccia che cade dall’Oceano non è che l’avvisaglia di tutte le altre. La politica degli “one and done” e la mole di entertainment che circola stanno cambiando la concezione di uno sport che, nella sua visione originaria, era pensato da dilettanti e per dilettanti. Danni più pesanti di quelli provenienti da agenti truffaldini e college che farebbero di tutto per vincere, derivano però dall’ignoranza, perché spesso si tende a ricordare solo meriti sportivi e skills, ma si omette il fatto che stiamo parlando di studenti in piena fase d’apprendimento. L’esplosione di quest’anno ha fatto aprire gli occhi in quella ricerca, quasi assurda, della perfezione e della vittoria. Ci ho riflettuto bene sul punto e alla fine mi sono trovato ad essere d’accordo con Wilt Chamberlain che può sintetizzare con una frase prognostica, quello che ancora deve avvenire :
They say that nobody is perfect. Then they tell you practice makes perfect. I wish they’d make up their minds.
A MESSA DI DOMENICA: LOYOLA
“Success doesn’t stop when you get there” (Michael Jordan)
Credete nei miracoli? Una scuola di matrice gesuita che ha come sua prima tifosa e non solo una suora ultra 90enne che è a bordo campo nonostante la sedia a rotelle, una serie di vittorie assurde per arrivare fino alla Final4 dove se la vedranno contro Michigan e c’è ancora chi parla di favola o miracolo. L’ultraterreno c’entra, magari ha aiutato in tre delle quattro partite vinte sulla sirena, ma fino a un certo punto. Loyola ha tradizione, ha anche vinto un alloro nel ‘63, con una squadra in cui militavano anche dei giocatori di colore, cosa assurda per l’epoca, ma ha soprattutto una spasmodica convinzione nei propri mezzi che è vitale quando bisogna vincere una gara da dentro o fuori.
Sono loro la squadra da favola, una di quelle storie che mi ricordano una palestra dell’Indiana e Gene Hackmann a fare da scorbutico coach a una squadra di basket di provincia. Loyola non ci insegna una nuova pallacanestro, ma è la testimonianza che alle volte non serve il gran nome che finirà alle prime cinque scelte del draft per arrivare lontani, ma basta ricordarsi che il basket è uno sport semplice, con due canestri a 3.05 di altezza e che, anche se non lo diremo mai ad alta voce, ciò che conta è buttarla dentro, nulla di più, sia che tu sia un underdog che la più platinata delle superstar.