Riccardo Moraschini: “Dieci mesi lunghissimi, non ricordavo come fosse il 5vs5”

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Riccardo Moraschini

Partiamo dalle tue origini: nato a Cento ma un grande legame con Bergamo grazie a tuo papà. Qual è il tuo vero ricordo con la città e lo sport a Bergamo? Immagino sia stato una parte importante della tua vita…

Andavo spesso da piccolino, quando avevo meno impegni legati alla pallacanestro, andavo a trovare nonni, zii, cugini. Chiaramente gli impegni ora sono maggiori, faccio più fatica, ma appena posso vado. Bergamo è una seconda casa: non ho mai vissuto lì, ma ci andavo spesso a Natale. Ho un bellissimo ricordo d’infanzia legato a Bergamo: ho molti amici che ho conservato nelle crescita, sia legati alla pallacanestro che extra cestistici.

In un podcast passato avevamo già parlato dei tuoi inizi. Si parla di tanto di giocatori che conquistano il successo e riescono a fare grandi salti di qualità (Melli, Polonara, Fontecchio) andando all’estero. Tu hai avuto un percorso diverso: hai fatto un passo indietro a livello di categoria per poi risalire. Come ti poni nel ragionamento per cui l’italiano è tutelato ma nel quale tu sei l’esempio che, anche stando in Italia, si può arrivare al top?

La prima sensazione che ho è quella di aver avuto nella mia testa l’idea di non mollare mai, la consapevolezza di poter arrivare dove sono oggi. Non ho mai mollato, ho avuto alcuni problemi di infortuni (Trento) e sfortune legate a decisioni prese in passato, ma fa tutto parte dello sport. Non sempre le cose vanno come si pensa: ho avuto difficoltà nell’avere continuità nel gioco in A. ho deciso di scendere in A2 per divertirmi, giocare e dimostrare i valori che sentivo di avere. Mi è stata concessa una grande possibilità a Brindisi con Vitucci e l’ho sfruttata al meglio. Me la sono giocata bene, avevo tanta voglia di venire fuori e arrivare a giocarmi l’Eurolega con le massime squadre di LBA. Ognuno ha il proprio percorso ma, alla fine, l’importante è dove arrivi. Sono arrivato dove penso di meritare!

Si parla spesso di vedere in modo “non positivo” il fatto di scendere di categoria. I motivi sono vari: sembra quasi una sconfitta. Nel tuo caso è invece stata probabilmente la scelta giusta, anche in chiave dell’opportunità avuta a Brindisi. Come hai vissuto quel momento? Ti è mai capitato di soffrire qualche critica?

Non ho mai sofferto niente. Ho iniziato a giocare a basket perché sono innamorato di questo sport, volevo che la pallacanestro diventasse il mio lavoro e così è stato. L’occasione che ho avuto a Brindisi è arrivata tardi anche per colpe mie. L’italiano in Italia è tutelato fino a un certo punto: in Italia, rispetto ad altri paesi, l’italiano diventa un italiano maturo a 25, 26, 27, non come succede in Spagna, dove nascono e crescono talenti ogni giorno, sempre più giovani. La dimostrazione è Eurobasket 2022: rispetto alla cultura italiana, lì è ben diversa. Lo stesso Simone Fontecchio è un esempio lampante del percorso e della tipologia che ognuno può vivere: è andato all’estero facendo fatica a trovare squadra nel mercato italiano, adesso dopo 2 anni è in NBA. Ha avuto una crescita esponenziale. Non ho mai sofferto il dover scendere di categoria per rimettermi in gioco: ognuno ha il proprio percorso. Io sentivo in quel momento di dover dimostrare in primis a me stesso cosa fossi in grado di fare in campo perché in A non ne avevo mai avuta la vera occasione. È una decisione che ho preso con la massima serenità.

Brindisi è stata un’occasione arrivata sì tardi, sei passato dal giocare a Mantova a, dopo una stagione e qualche mese, a Milano. Cosa è successo? Cosa ti ha permesso di giocare con la stessa qualità e la stessa intensità ad un livello molto superiore?

Non so cosa mi sia scattato. Penso che ognuno abbia le proprie qualità: se qualche GM, qualche presidente o allenatore vede certe caratteristiche che gli piacciono, penso sia solo un discorso mentale del giocatore, quello di metterle in campo e mostrarle a tutti. Questa è stata la chiave di volta: giocare in A potendo giocare come mi sentivo io, in maniera istintiva, libera, avendo possibilità di sbagliare… Onestamente, la maggior differenza che ho visto è il rimanere in campo nonostante gli errori, perché fanno parte del gioco. A Brindisi ero pronto, sapevo che potevo starci e fare la differenza. Ho sempre creduto nei miei mezzi: ho sfruttato l’occasione con la massima naturalezza possibile. Ho potuto mettere in pratica quello per cui ho lavorato tutta una vita.

Arriva la chiamata di Milano: hai avuto la possibilità di sbagliare stando in campo, proseguire il percorso di crescita sino ad arrivare elemento di rotazione di una squadra di Eurolega con certe ambizioni. La possibilità di sbagliare è sempre più limata: i minuti in campo sono determinati, rispetto ad altre cose, da quanto poco sbagli. Quanto è stato difficile adattarti, in un processo che da Mantova in poi ha bruciato le tappe?

La chiave è saper riconoscere dove si è: a Brindisi mi è stato dato un ruolo da realizzatore, portando tanti punti alla squadra; a Milano ci sono tanti giocatori in grado di farlo, le richieste sono diverse. Sicuramente c’è stato un momento dove ho dovuto capire cosa dovessi fare di utile per aiutare la squadra a vincere. Penso che le mie caratteristiche siano quelle di adattarmi al tipo di gioco e di squadra in cui sono. Non sono un realizzatore e basta: ho dimostrato di poter fare tanto canestro ma anche tante altre cose, riuscendomi a rispondere alle richieste del coach per riuscire a vincere, l’unica cosa che conta. Devi fare tutto per far sì che vada bene: riuscire a capire il prima possibile quali fossero le richieste dell’allenatore per vincere.

Ettore Messina non ha bisogno di nessuna descrizione: fisiologicamente è un allenatore che dà tanto e richiede tantissimo, soprattutto dal punto di vista della concentrazione e dell’apporto continuativo. Quanto ci hai messo ad abituarti a uno standard non solo fisico, all’asticella posta giorno dopo giorno sempre più in alto? Quanto senti di aver migliorato il tuo gioco?

Giocando ogni 2-3 giorni, anche stando 10 anni in una squadra di Eurolega puoi riuscire ad andare in palestra concentrato ogni giorno. Quello è il passo più importante, che fa la differenza tra giocare ad altissimo livello e farlo a uno più basso. Anche l’anno scorso, a inizio stagione (terzo anno a Milano, ndr), c’erano giorni dove la concentrazione era più bassa: penso che sia normale, ma il fatto di allenarsi tutti giorni a 30 anni non ti fa sentire arrivato. Ho sempre la voglia di migliorare tecnicamente e mentalmente come se avessi 15 anni. Ogni anno c’è da evolvere sotto ogni aspetto: Milano mi ha aiutato tantissimo.