Quando nella stagione 2009-10, con la settima chiamata del Draft, i Golden State Warriors selezionavano Stephen Curry, nessuno avrebbe di certo immaginato l’impatto che quel giocatore avrebbe avuto sulla franchigia e non solo. Si pensava che fosse la solita mossa di Don Nelson, che vive e regna per il tiro da tre punti e l’attacco totale nelle sue formazioni, per aggiungere a una squadra fatta di genio e sregolatezza (vedi i vari Harrington, Davis, Jackson, Maggette ed Ellis) un qualcosa di più. Su Curry c’erano dubbi, sul fatto che fosse piccolo, esile, che non provenisse da un college d’èlite (tre anni a Davidson) e che fosse solo un 3-pt specialist. Memorabile fu la protesta nella baia quando Ellis fu ceduto proprio per dare più minuti al rookie. Se fosse tutto scritto dall’inizio, non avremmo il gusto di amare questo sport.
Otto anni dopo siamo a parlare di una delle franchigie più vincenti della storia del basket moderno, una corazzata che ha addizionato Thompson, Green e Durant per cementare il proprio successo, ma che molto deve anche e soprattutto al folletto col #30 sulla schiena. Curry ha nel proprio DNA la capacità di poterti colpire da qualsiasi distanza. Una sensibilità nel tocco e nel rilascio che non hanno eguali e che gli ha permesso di battere in pochissimo tempo mostri sacri come Reggie Miller e Ray Allen per triple realizzate ed incidenza che quelle conclusioni hanno. Curry non è solo tiro, questo è doveroso precisarlo, ma la sua dote di talento gli permette di essere diabolico.
Basta una scena a fotografarlo. Nell’ultima gara delle Finals, con Cleveland che profonde l’ultimo sforzo per provare a vincere una gara, Golden State sembra appigliata al solo Durant, che sta guidando la squadra con grandissima padronanza. LeBron prova a chiudere la ferita, anche perchè gli “Splash Brothers” stanno sparacchiando dal campo e han le mani gelate. Eppure nel momento catartico, con Love che segue il suo avversario anche oltre gli 8 metri, in uno sforzo di marcatura che forse mai aveva pensato di produrre, Steph gli spara due confetti che sono irreali, chiudono game, set and match e dimostrano quanto e come sa incidere il prodotto di Davidson.
Curry è un fuoriclasse e un vincente di razza che pur senza allori di MVP delle Finals, ha cambiato per sempre questo sport. Il punto sta proprio qui. È stato davvero un miglioramento quello apportato da Steph al gioco di Naismith, o forse i suoi tanti imitatori stanno snaturando la natura della lega di Adam Silver? Vale la pena analizzare cosa è successo negli anni post esplosione di SC#30 ed i risultati, anche recenti, non sono certo incoraggianti.
PRESENTE E PASSATO
Il presente si chiama Trae Young, giocatore scelto da Atlanta per rifondare una franchigia che navigava nei bassifondi dell’Eastern Conference. L’atteggiamento alla prima partita di Summer League è stato quello tipico di una numero cinque del draft, quindi arroganza e faccia tosta, poi il campo recita 0/17 da tre e di questi almeno 10 erano forzature “alla Curry”. Potremmo recitare altre statistiche ma il senso si è capito in maniera inequivocabile.
Se si pensa al passato e a quanti sono stati scartati dal mondo NBA per delle caratteristiche “alla Curry”, il discorso appare paradossale e fa capire quanto Golden State e il suo folletto abbiano cambiato il concetto stesso di pallacanestro e di tiratore. Il college NCAA fin dai tempi di JJ Redick (che ha dovuto reinventarsi una carriera di specialista dopo anni di gogna mediatica non indifferente a Orlando) ha sfornato orde di bei tiratori a cui mancava sempre quel quid per poter essere giocatori importanti in NBA. Non è un caso che le scelte al Draft azzeccate siano andate a prendersi i cosiddetti “slasher” ossia quei giocatori a cui dare qualche skill di esperienza, ma che partivano da una buona base.
Quando sul palcoscenico si sono affacciati giocatori alla Curry, questi però sono stati presi dal sistema, reinventati e quindi o si sono adattati o sono stati defenestrati. Si pensi a Kevin Love in prima battuta. Tiratore sublime, magari di un ruolo diverso, ma che nel passaggio da una squadra senza ambizioni come Minnesota che gli dava tanta libertà, a una come Cleveland, dove di responsabilità ne aveva fin troppe, è cambiato radicalmente, risultando un gregario di lusso, anzichè un secondo violino. Oppure, per rimanere nel tema, Doug McDermott, che con Creighton era la cosa più vicina alla bombarda disegnata da Leonardo da Vinci, mentre in NBA non ha un suo ruolo, latitando nell’ombra laddove gli Steve Novak e i Brian Scalabrine di questo mondo sono risultati più utili alle cause delle loro franchigie.
FREDETTE E HENDERSON, QUANDO IL TALENTO NON BASTA
Pensiamo poi invece a quanti non sono riusciti a ritagliarsi un ruolo, come Jimmer Fredette o Marshall Henderson (per cui il fattore testa calda ha inciso comunque). Due specialisti che sanno letteralmente vincere la gara da soli, sanno costruirsi e mettere a segno tiri impossibili e da distanze considerevoli. Se si pensa che Fredette ha dovuto reinventare una carriera a dir poco distrutta in Cina e che ora, tra difficoltà varie, si sbatte come un matto nel TBT per il premio finale di 2 milioni di dollari (43 punti nel quarto di finale per la cronaca), si fa presto a decifrare meglio che non a tutti si danno le stesse possibilità; questo perchè dove per Steph Curry c’è libertà anarchica, oltre che talento, c’è anche il giusto spazio per “rispettare” le sue scelte. Altrove, contesti più perdenti e che necessitano di concretezza, non ci si può permettere un funambolo. Potrebbe dirsi lo stesso per LiAngelo Ball, fratellino di Lonzo e una sorta di basketball android costruito da papà Lavar.
La differenza con Steph? Forse stata tutta nell’esperienza formativa al college. Molti dei tanti giocatori fanno una sola stagione al college con cifre assurde, magari in squadre che non vanno nemmeno al Torunament, aggiungono cifre mirabolanti al proprio taccuino e lievitano nelle scelte del draft, ma di fatto non hanno quel background necessario per il piano di sopra, proprio laddove il figlio di Dell ha sgomitato e si è imposto in un college che non è nè Duke, nè Kansas o Kentucky, ma che ha saputo portare alla ribalta nazionale fino alle fasi finali del torneo NCAA.
Il futuro della NBA sembra essere però compromesso. Sono in tanti che provano a inventarsi “basketball androids” ma non nel senso di Pete Maravich, che ha dato origine a questa dicitura. Laddove Pistol Pete creava e pensava cose che non potevano essere immaginate, i giovani alla Young sembrano solo emulare un modello che – al momento – risulta vincente e capace di farti affermare in tempi brevi. Se cambia l’aspirazione al sacrificio, al lavoro duro in palestra – dato che spesso si tende a trascurare nel climax ascendente della carriera di Curry – si perde l’amore il basket e la lega, di conseguenza, si impoverisce, tecnicamente e quantitativamente. E sarebbe un vero peccato se a decidere le gare fosse solo la percentuale del tiro da tre punti.