Torino saluta con una vittoria la sua ultima gara in Serie A, non si sa bene per quanto tempo. Le note vicende delle ultime settimane, con la penalità e il mancato raggiungimento del budget necessario, rendono il futuro della Torino cestistica incerto più che mai. Proprio questa incertezza è ciò che più rende sconfortante la situazione del basket nella città della mole. I tifosi hanno individuato in Forni il responsabile di un ormai probabile fallimento societario e gli hanno dedicato cori di scherno. E di sicuro l’ex presidente e la sua famiglia hanno una enorme fetta di colpa per quanto successo, ripetendo gli stessi errori fatti in passato a Biella. Il buco economico lasciato e la gestione alquanto discutibile di questi anni hanno dato come risultato un’insostenibilità che ha allontanato anche eventuali possibili investitori, e non solo da questa stagione, quando ormai i buoi erano scappati.
Ci si dovrebbe però interrogare sui motivi per cui Torino, una piazza che ha dimostrato di esser pronta al basket di alto livello, non sia riuscita a trovare un tessuto imprenditoriale pronto a investire su una società storica recentemente risorta dalle ceneri di un fallimento e sprofondata nello stesso baratro dopo sole 4 stagioni. Fiat, Juventus, Intesa San Paolo sono solo alcune realtà del territorio che avrebbero potuto salvare il basket torinese, tirandosi giustamente indietro dopo essersi fatte due conti sulla sostenibilità economica dell’investimento.
La triste realtà è che il basket, nella situazione attuale, non è uno sport che porta vantaggi economici a chi nel movimento ci dovrebbe investire. Non è un caso che Torino sia solo una delle tante società in crisi, anche se alla resa dei conti è la squadra che paga per tutte una situazione poco rosea per quasi tutte le società.
Da voci piuttosto credibili, sono meno della metà le squadre di serie A che sono in regola con le normative in vigore. E sotto gli occhi di tutti ci sono i problemi di Avellino, di Trieste e nella quale è passata Cantù, ex squadra di Gerasimenko, l’ucraino che avrebbe potuto salvare Torino ma che ha di fatto dato il via alle reazioni di Lega e Federazione che hanno poi portato alla condanna dell’Auxilium.
Sulla situazione nel complesso si dovrebbe preoccupare la Federazione e in primis Gianni Petrucci, perché a prescindere da una Serie A a 16, 18, 37 o 62 squadre, la mancata sostenibilità del movimento non può che portare a una implosione del sistema tutto. E non bastano le frasi da cliché come “Il movimento è in salute” o la vittoria in Europa di Bologna e Sassari, o ancora la qualificazione ai mondiali in Cina per dimostrare la salute di un movimento. Perché un conto è la sostenibilità tecnica e l’ottimizzazione del talento e delle risorse a disposizione, tutto un altro una sostenibilità economica che sia in grado di attrarre sponsor e investitori e che faccia da fondamenta per il futuro.
Proprio su questo ultimo aspetto ci si dovrebbe muovere. Il basket professionistico, se professionistico deve essere, deve essere equiparato a qualsiasi azienda e per mettere in piedi un modello di business che inizi a portare ricchezza a chi investe soldi e forze nello sport, inizia ad essere fondamentale implementare un piano industriale che si ponga dei traguardi economici e sportivi in grado di supportare una crescita che non può più essere rimandata.
Ogni proroga a questo approccio non potrà che portare ad altre squadre che falliranno, ad altre stagioni sportive falsate da squadre non in regola che continueranno ad aggirare norme e regolamenti e ad altri ritardi di pagamenti degli stipendi che no, in un’azienda che si rispetti non possono essere “fisiologici”.