Non è giusto sia finita così. È una punizione eccessiva per ogni appassionato di pallacanestro. Non ci meritavamo un addio così triste, così scarno emotivamente e di trasporto. A noi, fedeli della palla a spicchi, gli dèi hanno imposto una prova di sofferenza ulteriore, in vista di una migliore forgiatura dell’anima. E agli dèi non si comanda. Perché di questo si tratta, quando si parla di Vasilis Spanoulis. Di divinità. Mitologia greca e sacrale pallacanestro europea quasi mai si sono fuse così perfettamente in un’unica figura.
Pochissime volte si è conosciuta un’epitome così limpida del concetto di “onnipotenza” rapportata al Gioco. Non è giusto sia finita così. Un ritiro in sordina, a settimane dalla conclusione della stagione, lontano dai riflettori che avrebbe meritato. Senza concedere l’ultimo ballo dell’ormai logoro corpo trentanovenne, trascinato con sempre più fatica sui parquet europei ma in grado di regalare ancora lampi di classe cristallina. Non permettendo agli spalti ribollenti del Vecchio Continente di rendergli il giusto omaggio, dopo decenni passati a subissarlo di fischi di paura.
Abbiamo ancora negli occhi le immagini dei 31 calati nella sconfitta del 24 gennaio contro lo Zenit di Pascual, che lo hanno reso il giocatore più anziano a realizzare un trentello nella maggior competizione europea. A 15 anni dalle prime apparizioni sui massimi palcoscenici europei, Kill Bill non è riuscito a guidare i disfunzionali biancorossi del Pireo a un’insperata cavalcata Playoff. Ma, tutto sommato, glielo possiamo concedere. Glielo potranno concedere gli aficionados dell’Olympiacos, dati gli undici anni di successi e gioie con gli amici Printezis e Papanikolau. Glielo potranno concedere i bollenti spiriti che sono soliti popolare le gradinate di O.A.K.A, catino degli arcirivali del Panathinaikos. Eh, sì. La grandezza di V Span risiede anche in questo. Unire due fedi, l’una eresia dell’altra, che di fronte al talento e al genio cestistico di Spanoulis non possono che deporre le armi della crociata e inchinarsi al sovrano.
GLORIA PATRI
7 Campionati greci. 4 Coppe di Grecia. 3 Eurolega. 1 Coppa Intercontinentale. Non è sufficiente? Un argento mondiale in Giappone. Un secondo posto ai Giochi del Mediterraneo 2001. La vittoria della finalina in Polonia nel 2009. L’oro europeo in Serbia e Montenegro quattro anni prima. Non basta? 3 MVP del Campionato. 3 MVP delle Finali di A1 Ethniki. Miglior giocatore della stagione 2012-2013 di Eurolega. Svariati primi quintetti di Eurolega sparsi prima e dopo la traversata dell’Atlantico.
Sappiamo benissimo che i numeri e la bacheca ricolma di trofei non garantiscono una descrizione a 360 gradi di quanto un atleta sia stato influente per la Storia del Gioco. Tuttavia, qui ci troviamo davanti a un cannibale. Sì, cannibale. Dove lo trova il coraggio di infierire così malamente sui destini dei propri avversari. Magari facendogli credere per tre quarti e mezzo di vivere una serata storta per poi piazzare una serie di canestri decisivi nel finale? Spietato, Kill Bill. Sei un assassino senza cuore.
Quell’organo pulsante, motore di azione e sentimento. Lo stesso che hai fatto palpitare, sussultare, fermare per qualche istante durante l’infinita parabola di una tua tripla decisiva. Le rimonte col CSKA, il dominio nella finale col Real, i buzzer beater nei derby coi Greens. Troppe, le volte in cui ci hai concesso il privilegio e l’illusione di poter quasi toccare con mano la presenza di un’entità superiore. Perché lo percepivi nell’aria, quando stava per arrivare quel momento.
Lo percepivano i tuoi compagni, che si affidavano completamente ai tuoi polpastrelli e ai didimi cubici (palle quadrate ci sembrava lontano dai grecismi richiesti per nobilitare la situazione). Lo percepivano gli avversari, impotenti di fronte a un giocatore in completa trance agonistica che, fiutando l’odore del sangue sgorgare da una minuscola ferita, sferra l’attacco mortifero.
La percepivano tutti a palazzo, la presenza di qualcosa che non ha a che fare col mondo degli umani ma che, per qualche strano motivo, decideva talvolta di scendere dall’Olimpo a ricordare chi ha realmente tra le proprie mani le chiavi del Destino. Non il difensore più arcigno, neanche il sistema difensivo più collaudato, nemmeno le tattiche dello staff più ricercate. Quando Vasilis decide di far capire chi deve vincere, chi è chiamato a trionfare, non ce n’è per nessuno. Ah già, quasi dimenticavamo: per le 3 Eurolega conquistate tra Pana e Oly, fate 3 MVP delle Final 4. Quando il livello della competizione si alza, Kill Bill ha meno gradini da scendere. Tutto fiato risparmiato per esercitare il suo dominio in maniera ancor più terrificante.
“Il basket mi ha dato tutto. E io ho dato tutto a lui”. Mai parole più azzeccate per descrivere il rapporto viscerale che ha legato Vassilis alla pallacanestro. Un reciproco scambio di onori e glorificazioni. Eppure, prendete la venerazione che l’appassionato europeo dedica a Vassilis e ribaltatela completamente. Ecco a voi la considerazione che potrebbe avere un normale tifoso americano. Spanoulis chi? Quello che a Houston ha rotto immediatamente con Jeff van Gundy? Quello che, non contento, ha forzato la trade per andare agli Spurs e, giocando pochissimo, ha tirato in ballo la salute della madre pur di tornare in patria? Sì, cari miei. Proprio quel Vasilis.
Uno dei membri della lunga lista di geniali playmaker europei inadatti all’atletismo e alla fisicità del basket americano. Jasikevicius, Teodosic, Rodriguez, Danilovic. Potremmo andare avanti ancora a lungo. Son dovuti tornare tutti tra le braccia del basket continentale per riassaporare il gusto di deliziare ed essere deliziati dai doni delle divinità cestistiche. Figurarsi se Spanoulis poteva esimersi, data la vicinanza morale ai piani alti.
TE DEUM LAUDAMUS
Spanoulis o Diamantidis? Chissà quante volte, nel corso del primo quindicennio del Terzo Millennio, questa domanda sia stata pronunciata dalle bocche di addetti ai lavori e tifosi d’Europa. Rappresentanti di due realtà così vicine da non poter evitare il conflitto. Una moderna Sparta vs Atene, circoscritta tra le mura della capitale dell’Attica.
Dimitris, fedele capitano dei Verdi, che ha rinunciato alle sirene statunitensi per dedicare l’intera carriera a difendere le sorti del Pana. Vassilis, Pausania dei nostri tempi, passato direttamente dall’essere idolo di O.A.K.A a diventare beniamino dello Stadio della Pace e dell’Amicizia. Entrambi massimi esponenti della miglior generazione della storia del basket ellenico. Pochissimi tifosi del Pana provano però rancore per il passaggio di Spanoulis agli odiati cugini.
Certo, le bordate di fischi che lo subissavano a ogni incrocio in casa Panathinaikos non raggiungevano decibel inferiori, anzi. Ma erano fischi di rispetto, espressione quanto mai emblematica del timore di Dio. Non arriviamo a dire che Spanoulis abbia unito, una benedetta volta, le due tifoserie. Certe dinamiche sono inscalfibili, anche se possiedi caratteri semidivini. Ma ha reso possibile una risposta al quesito in ballo. Spanoulis o Diamantidis, allora? Spanoulis e Diamantidis.
Ricapitolando: un playmaker europeo senza particolari doti atletiche, il cui marchio di fabbrica è lo step back, possibilmente da dietro l’arco e con la mano del difensore in faccia. Oh, mio Dio, ma stiamo parlando di Luka Doncic? No, non stavolta. Ma l’accostamento non è casuale. Che uno dei (se non il) giocatori europei potenzialmente più forti della storia si ispiri sin da piccolo a Spanoulis deve farci rendere conto di tutto quello che, dalla prossima stagione, mancherà all’Olympiacos, al basket greco e al godimento di tutti noi. E rischiamo che tutto passi in sordina, a causa delle ultime stentate stagioni.
Tra alti e bassi fisici e pandemia, corriamo il rischio di esserci quasi abituati a poter fare a meno di uno come Spanoulis. Lontani dal parquet, attraverso lo schermo della tv o del computer, la sua aura ha fatto più fatica a irradiarsi e nutrirsi della nostra idolatria. Non ti meritavi un addio così triste, così scarno emotivamente e di trasporto. È una punizione eccessiva per ogni appassionato di pallacanestro. Non è giusto sia finita così.